Un virus da Berlino

Il Festival Infektion

Recensione
classica
La Staatsoper di Berlino propone regolarmente da alcuni anni, all’inizio dell’estate, una finestra dedicata al teatro musicale recente o recentissimo: ‘Infektion’, il nome del festival, allude forse al virus che infetterebbe ormai da alcuni decenni la concezione moderna-melodrammatica del teatro musicale, e un tema dell’edizione iniziata a metà giugno riguarda proprio uno dei virus più indocili. In Fluxus Reloaded hanno trovato finora posto due installazioni (una video, in funzione per due settimane, una – Papierdialoge – performativa), un concerto per quintetto d’archi con performance Fluxus e uno con sole performance (storiche o concepite per l’occasione), le Europeras 3 & 4 di John Cage, e una nuova realizzazione (non una ricostruzione) di Originale di Stockhausen. Accanto a questo fil-rouge, tra gli spettacoli riproposti è tornato un dittico apprezzato già l’anno passato (Footfalls di Beckett / Neither di Feldman) e una novità assoluta di Hosokawa: il suo Matsukaze tien dietro peraltro a un altro lavoro su un No (ma di Mishima), Hanjo, andato in scena a Berlino nel 2013, e potrebbe legarsi al Feldman per l’attenzione al suono come tale, anche se in un quadro linguistico ed estetico assai differente. Si tratta, insomma, di un’edizione più retrospettiva che prospettiva, che comunque ha il merito di non mantenere un focus su un problema estetico e creativo nevralgico per la musica degli ultimi sessant’anni, capitalizzando al meglio produzioni già allestite nel corso della stagione.

Neither è dunque tornata sul palco dello Schiller Theater (la Staatsoper Unter den Linden è in ristrutturazione) preceduta, ma è meglio dire associata, a una delle tipiche, dense micropièce di Beckett, nella quale una situazione chiusa ed asfissiante (una madre allettata, una figlia prigioniera da decenni delle cure che gli deve) è riletta in tre prospettive narrative differenti. Dalla prima forma, con la figlia May in scena, i registi (Katie Mitchell e Joseph W. Alford) estraggono anzitutto l’elemento del titolo, misuratore (di tempo e spazio) e insieme binario ineschivabile, forma concreta di quel ‘neither’ che nega senza quasi porre neppure una tesi; sulla scorta dell’aforistico testo poetico concepito da Beckett appositamente per l’opera Feldman (a proposito, chi ricorda che la commissione e la prima si devono al Teatro dell’Opera di Roma, 1976-77?...), l’elemento viene moltiplicato e arricchito in scena da porte ora chiuse ora aperte, da cui balenano taglienti controluce; l’unica performer vocale (una Laura Aikin solida nella parte vocalmente inesorabile, di fatto un materiale sonoro al pari di quello orchestrale, ma forse un po’ affaticata) si muove come le altre otto, in azioni simili ma mai sincrone. L’impatto è visivamente forte ed efficace (da menzionare gli autori dell’allestimento, Vicki Mortimer – scene e costumi, Signe Fabricius – coreografia, Jon Clark – luci, Jens Schroth – drammaturgia), e non si mangia le qualità della musica, che poggia su strutture modulari messe in opera in modo tale da mimetizzare ogni meccanicità iterativa ed evitare ogni squadratura, in favore di una fenomenologia timbrica del suono. Il pubblico, che ha lungamente applaudito tutti (e perciò anche l’ottima Orchestra diretta da François-Xavier Roth), si è poi spostato quasi in blocco di fronte all’ingresso dello Schiller-Theater, dove la proverbiale variabilità meteorologica berlinese ha risparmiato l’avvio dell’ ‘happening concert’ curato dall’Ensemble Lux:nm, per la regia di Sophia Simitzis. L’assemblaggio di storiche (Paik, Friedman, Vostell, Yoko Ono e altri) e nuove (l’ampia suite del ‘cabinet des curiosités’ di Jef Chippewa, che ha concluso il tutto dentro la Werkstatt del teatro) performance-Fluxus ha trovato il compiacimento e il divertimento del pubblico, ma rimane il problema della proposta di azioni che, 60 anni fa, incarnavano appieno un potenziale eversivo (teatrale, sociale, e – non si dimentichi – sonoro, tanto da guardare a Cage quale fonte d’ispirazione e da non lesinare collaborazioni con la neo-avanguardia del tempo), o, sul piano sistematico invece che storico, della realizzazione di azioni legate a una dimensione più concettuale che reale. D’altronde, il principio-Fluxus, l’adesione al flusso della vita e la sua elevazione ad arte, impone che ogni azione si cali nel momento – storico, individuale – in cui prende vita: sarà un caso che, tra le performance realizzate, siano sembrate più convincenti quelle – Dragging Suite, Fruit Sonata – più letterali rispetto alle istruzioni (inizio anni Sessanta) degli autori?

Il problema si moltiplica poi per una pièce che a Fluxus e a Cage paga un debito ma li trascende, quale Originale (1961) di Stockhausen… Il week-end berlinese volge però al termine, la domenica sera qui impone un marcato raccoglimento pre-lavorativo, e di questo spettacolo si parlerà a parte nella prossima corrispondenza.

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