Da Gluck a Vinci

Tra Parigi e Versailles

Recensione
classica
«Affermo che Alceste piacerà ancora tra duecento anni, e lo credo perché mi sono basato esclusivamente sulla natura che non segue mai la moda»: così affermava con sorprendente lungimiranza Christoph Willibald Gluck nel 1776 al debutto a Parigi della versione française di Alceste su libretto di François-Louis Gand Le Bland du Roullet.

L’Opéra de Paris propone uno splendido allestimento di Alceste che si deve al genio registico di Olivier Py che propone un’interpretazione filologica nella fedeltà alla trama e allo spirito di questa opera nella quale Gluck volle una forte caratterizzazione psicologica dei personaggi come egli stesso affermò - «Composta per intero basandosi sulla verità della natura dove ogni passione trova la vera espressione» -, ma modernissima nell’allestimento rigorosamente in bianco e nero che riflette profondità e rigore dei sentimenti che animano i personaggi. È la storia di un sacrificio per amore: Alceste offre agli dei la sua vita in cambio della guarigione del marito Admeto. È lo strazio dell’una non tanto per la vita che offre generosamente quanto per dover abbandonare gli affetti (marito e figli) e per il rimprovero di Admeto che l’accusa di crudeltà perché abbandonato non sa come riuscirà a sopravvivere senza Alceste. Lieto fine per l’intervento di Ercole che toccato dal sacrificio di Alceste la riporterà sulla terra dall’Ade.

Questa trama intensa drammaticamente è illustrata con grandiosa semplicità ma toccante della musica monumentale di Gluck che Sébastien Bouland, alla testa del Choeur (eccellente per compattezza, intonazione e presenza scenica) et Orchestre des Musiciens du Louvre Grenoble (in stato di grazia), sviscera nell’orchestrazione con cartesiana dedizione anche nell’elemento più recondito a concorrere a quella aura di emozione che fa entrare in risonanza i precordi dello spettatore in una gara di commozione con la drammaturgia ,raggiungendo vette di coinvolgimento perfino… imbarazzanti: si è come palma nel vento travolti in mano alle geniali mani del mago Py che si avvale di una squadra di abili disegnatori che armati di gessetti illustrano i sentimenti messi in scena nell’opera su plumbee lavagne nere, schizzi fugaci destinati ad essere cancellati come le speranze, i sentimenti dei protagonisti che si smaterializzano, per quanto intensissimi caduchi, accavallandosi ad un turbine di sempre nuove emozioni nella fuga della trama al lieto fine. Si è cullati dai melismi di un’impareggiabile Véronique Gens, intensissima Alceste, che sottolinea con stentorea forza drammatica ogni sfumatura della parte in un ping pong di rimando con il non meno intenso Stanislas de Barbeyrac (Admète). Non si misura la bravura sulla purezza del acuto o la morbidezza del legato o l’abilità nell’affrontare le agilità. Tutto questo è ovvio, dato per scontato: funzionale alla veridicità del personaggio. Qui si tratta di cogliere le sfumature interpretative degli affetti rappresentati con magistrale violenza scenica difficilmente eguagliabile. A far da corona un cast a livello che va dai bravi tutti Manuel Nuñez Camelino (Evandre, Coryphée alto), Chiara Skerath (Coryphée soprano), Tomislav Lavoie (Apollon, Un Héraut, Coryphée basse), François Lis (Une Divinité Infernale, L’Oracle), Kévin Amiel (Coryphée ténor) passando per l’ottimo Stéphane Degout nel duplice ruolo del perfido Le Grand Prêtre d’Apollon che pretende una vita in cambio della guarigione di Admeto ed il sensibile Hércule un po’ folletto un po’ imbonitore circense nella regia di Py, deus ex machina che salva sì Alceste ma tempera di molto il lieto fine: infatti i protagonisti restano con l’amaro in bocca (Alceste resta perfino con il velo funebre tornata in vita!) perché capiscono di essere stati pedine degli dei ma non come Platée, non come Semele vittime di un puro divertissement celeste. Coscienza che è un tratto di modernità che fa da pendant alla modernità della riforma gluckiana.

All’Opéra Royal de Versailles in contemporanea il Festival de Versailles celebra Leonardo Vinci con la presentazione di Catone in Utica, opera seria in tre atti del nostro su libretto di Metastasio scritta per il Teatro delle Dame di Roma (19 gennaio 1728). La produzione é Parnassus Art Production che l’ha comprodotta oltre che con lo Châteaux de Versailles Spectacles e con l’Hessisches Staatstheater Wiesbaden. Dal fatto che fu composta per Roma deriva una peculiarità: infatti, nel ‘700 nella ‘Cittá eterna’ era ancora in vigore l’antico decreto (1588) di Papa Sisto V che proibiva alle donne di cantare nei teatri. Il cast non poteva quindi che essere esclusivamente al maschile, e così fu. Ebbene nella Francia repubblicana faro di democrazia questa bizzarria discriminatoria filologica è riproposta ma con una fondamentale differenza: oggi in assenza di castrati, i ruoli sono affidati a sopranisti e contro-tenori. Ben cinque! E tutti con belle voci. Si va dal virtuosismo acrobatico iperbolico di Franco Fagioli (Cesare) che lascia ogni volta a bocca aperta ascoltarlo dal vivo (bravissimo nell’agilità, vanta grande estensione ed acuti portentosi) al velluto dei legati di Max Emanuel Cencic (Arbace) che vanta anche grande presenza scenica, dalla tessitura acutissima di Ray Chenez (Marzia), in sostituzione di Valer Sabadus, dinoccolato spilungone fasciato in un abito di velluto nero si muove un po’ troppo rigido alla bellissima voce morbida e potente di Martin Mitterrutzner (Fulvio). Poi, l’incredibile Vinci Yi (Emilia) dal timbro assolutamente di una voce femminile e dall’aspetto pure ambiguo che si è sempre in bilico se sia un uomo en travesti o una donna. Infine, l’unica voce ‘maschile’ nella tessitura che ci si aspetta è quella fresca del bravo tenore Juan Sancho (Catone).

Potrebbe sembrare una bizzarria proporre i ruoli dei castrati con contro-tenori piuttosto che con soprani o contralti, come si faceva all’epoca in assenza dei castrati. Ma con queste voci lo spettacolo funziona, e molto bene! Spettacolo la cui regia rigorosa in Black and white di Jakob Peters-Messer si avvale anche di eleganti animazioni video (Etienne Guio). Ricchi costumi barocchi (penne, elmi…) di Markus Meyer, a cui si devono anche le belle scene. Brillante l’orchestra Il Pomo d’Oro esuberante nei ritmi spumeggianti con legni caldi ed ottimi ottoni sempre intonati puntualmente diretta da Riccardo Miniasi che da un aplomb di dignità quasi hândeliana alla musica di Vinci. Per chi non c’era o per chi volesse riascoltarlo ne esiste un cd Decca.

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