Il jazz sudafricano visto dall'Italia | 1

Alla scoperta di The Orbit, jazz club che è punto di riferimento della scena di Johannesburg

Recensione
jazz
Massicci palazzi moderni e ampie strade, una parte della città che soprattutto di notte mi fa pensare a Manhattan. E newyorkese è anche la prima associazione che mi viene dentro il club, per via delle foto di jazzmen alle pareti, e anche di una certa eleganza del locale: il Birdland. Però lo stile di The Orbit è molto più moderno, aggiornato. Senza contare che il Birdland fra ingresso e consumazione obbligatoria ti costa una cifra, mentre all'Orbit poi se vuoi bevi o ceni, ma intanto l'entrata viene l'equivalente di pochi euro, che certo qui rappresenta una spesa un po' più grande che per noi, ma comunque piuttosto accessibile: il che ha i suoi riflessi positivi sulla frequentazione e l'atmosfera. Al piano d'ingresso un cocktail bar con un piccolo palco e un piano verticale; al primo piano quasi duecento metri quadri di sala, con ristorante, tavoli, ampio palco con grand piano di livello, e vetrata verso strada. Sono arrivato dall'Italia giusto il giorno prima, in marzo - fine estate in Sudafrica - uno dei paesi a cui musicalmente sono più legato, e da tanti anni, ma che non avevo mai visto. L'occasione è stata una comunicazione sulla diaspora jazzistica sudafricana in Europa, alla School of the Arts della Witwatersrand (Wits) University di Johannesburg, alla University of Kwazulu-Natal di Durban, e in un club di Cape Town, la Martin Melck House: l'iniziativa è partita da Corrado Beldì, direttore artistico di Novara Jazz, e ha trovato subito l'interesse dell'Istituto Italiano di Cultura di Pretoria, che ha inserito gli interventi in una serie di talk proposti dalla delegazione dell'Unione Europea in Sudafrica.

A portarmi all'Orbit subito dopo la comunicazione alla Wits - che è a due passi, espressione non del tutto appropriata perchè qui ci si sposta sempre in macchina - è Carlo Mombelli, che per la Wits è stato l'interlocutore dell'Istituto Italiano di Cultura nell'organizzazione dell'appuntamento. Docente alla Wits, bassista elettrico, Mombelli è uno dei più originali e vivaci protagonisti della scena musicale sudafricana. È nato nel '60 in Sudafrica, dove il padre era arrivato da un piccolo centro della provincia di Brescia: Mombelli non parla più di qualche parola di italiano, ma va matto per il nostro Paese, e il suo sogno è un domani di dividersi fra il Sudafrica e la penisola, di avere un punto di appoggio magari in Umbria, anche per essere vicino all'adorata Roma.

Autodidatta, Mombelli ne ha fatte di cotte e di crude suonando e insegnando in diverse parti del mondo, in particolare Usa, Germania e Svizzera; ha collaborato con uno spettro tanto ampio di personaggi da comprendere fra i molti Lee Konitz, Egberto Gismonti e Gloria Gaynor; in Sudafrica ha inciso fra l'altro con Simphiwe Dana, Sibongile Khumalo e Miriam Makeba. Ma una delle cose di cui parla con più entusiasmo è l'esperienza di "liuteria urbana" vissuta in anni recenti insegnando a bambini e ragazzi delle township di Soweto e Mamelodi a costruirsi degli strumenti musicali non convenzionali con materiale di recupero. Ben distribuito nei (peraltro rari) negozi di dischi, l'album più recente di Mombelli è Stories, pubblicato da Instinct Africaine nel 2014, in quintetto con Mbuso Khoza, voce, Adrian Mears, trombone, Daniel Pezzotti, voloncello, e Dejan Terzic, batteria: un bel lavoro pieno di fantasia e di sensibilità, libero da ossequi a generi, senza grandi connotazioni sudafricane, piuttosto di gusto europeo, con echi classici, e con inclinazioni melodiche a cui l'Italia in effetti non mi pare del tutto estranea. Ma Mombelli ha attualmente in circolazione anche un doppio cd, Abstractions Retrospective 86 to 92, che raccoglie brani registrati a cavallo fra anni Ottanta e Novanta quasi tutti in quartetto con chitarra (spesso Mike Goodrick), batteria (Bill Elgart) e per lo più il grande, compianto, Charlie Mariano al sax alto, soprano, flauto o flauto indiano: un italoamericano con il suo magistero e il suo pathos, e un italosudafricano con il suo basso evocativo e poetico, che rendono godibilmente significativa una musica di elegante, sobrio taglio fusion.



Mombelli all'Orbit è di casa: conosce tutti, chiacchiera con un sacco di gente, appena entrati incontriamo Marcus Wyatt, il trombettista bianco che è una delle figure più in vista del jazz sudafricano di oggi: Wyatt ha allestito una Blue Notes Tribute Band, rivisitando la musica del gruppo che costituì il nucleo fondamentale della diaspora sudafricana in Europa. Mombelli all'Orbit suona con i propri gruppi, e ci suonano suoi allievi e ex allievi alla Wits. Per esempio il ragazzo mulatto, mingherlino, che avevo visto poco prima all'università, e che adesso, stretto in un completo nero attillatissimo, camicia bianca e cravattino, è uno dei vocalist che si alternano sul palco con la Orbit Orchestra: una nutrita formazione quasi tutta bianca, di jazz moderno, molto rilassante, con un bel sound d'insieme, che ti dà una piacevolissima soddisfazione appunto orchestrale, con in più il gustoso succedersi, uno diverso ad ogni brano, dei cantanti. Prima del giovane allievo di Carlo c'è una ragazza bionda, carina, che col rossetto e un abito verde pisello stretto in vita e gonfio a campana dai fianchi in giù sembra una cantante americana degli anni cinquanta; poi arriva una cantante nera, piccola, sexy, con una voce interessante, che evidentemente deve avere ascoltato molto Billie Holiday.

Il personale dell'Orbit è tutto nero; il pubblico in buona parte bianco: parecchi giovani dall'aria trendy, soprattutto ragazze vestite e con acconciature dei capelli estrose. Certo che si tratta di giovani privilegiati, di una élite: siamo nel quartiere di Braamfontein, vicini alla Wits, e a qualche centinaio di metri, dietro l'angolo, ci sono un paio di bar che stanno aperti fino a tardi, con musica - house, più o meno - che rimbomba fuori, giovane clientela mista e qualcuno che balla anche per strada, fra i taxi che aspettano. E forse proietto sull'ambiente dell'Orbit dei miei entusiasmi da neofita del Sudafrica, ma la mia sensazione è quella di un Paese che, in mezzo a tante difficoltà e problemi, e disastri a vari livelli della politica a cominciare da quelli apicali, sta ancora cambiando e guardando avanti, e ha tutt'altro che esaurito le energie liberate dalla caduta dell'apartheid. Avverto un clima positivo, brillante, oltre al fatto che - come dal momento in cui sono uscito dall'aeroporto - anche qui la gente (a me abituato a Milano) appare piacevolmente distesa, cordiale, comunicativa.

Sono i giorni in cui l'Orbit sta festeggiando il suo primo anniversario. Posso immaginare che non sia facile far tornare i conti di un'impresa del genere. Ma dal punto di vista della popolarità del locale, del ruolo di riferimento che ha rapidamente assunto, The Orbit è un successo. Che si spiega con l'affabilità del locale, la professionalità con cui è gestito, la qualità della cucina (scendendo nei particolari, da parte mia mi sentirei di lodare l'ottimo sauvignon bianco sudafricano della casa), i prezzi, ma principalmente il fatto che tutto questo nella concezione dell'Orbit è un contorno, e che al centro c'è la musica: il jazz e un jazz club, quindi, non come semplice occasione mondana.

Durante i set Aymeric Peguillan va personalmente ai tavoli dove i clienti parlano a voce alta ad invitarli a non disturbare la musica: francese, ex mission manager di Medici senza frontiere, Peguillan è il socio operativo dei tre che hanno dato vita all'Orbit, gli altri sono uno scrittore, pure francese, e un uomo d'affari sudafricano. The Orbit si fa un vanto di trattare i musicisti nel modo migliore, e la politica di Peguillan nella costruzione del cartellone è di lasciare ai musicisti che ingaggia la scelta del gruppo o dei partner con cui esibirsi, e di dare loro carta bianca sulla musica da proporre; quanto ai prezzi, Peguillan, da ex di Medici senza frontiere, pensa che come le medicine il jazz debba essere accessibile a tutti.

Quello che trovo invidiabile, dal mio punto di vista milanese, è che The Orbit non è semplicemente un locale che programma jazz: rappresenta anche una dimensione di comunità che, fra musicisti, addetti ai lavori e appassionati, il jazz qui a Johannesburg ha, ma che - con la chiusura nel 2005 del Kippie, con la trasformazione del Bassline in un locale in cui il jazz è solo uno dei tanti generi proposti - non aveva più un punto intorno a cui ruotare. Il nome, oltre che un omaggio a In Orbit, l'album del '58 di Clark Terry con Thelonious Monk, indica proprio la vocazione del club a svolgere questa funzione di perno. Basta arrivare a Johannesburg per rendersi subito conto che si tratta di una città sparpagliata, con una logica di spazi e di organizzazione urbana (in larghisssima misura a causa della politica di apartheid) diversissima da quella delle nostre città che da secoli (quando non millenni) sono cresciute per progressive e dense espansioni intorno ad un centro. Eppure, malgrado questa dispersione, c'è un ambiente del jazz che mi appare sorprendentemente coeso, oltre che articolato, bianco/nero e plurigenerazionale. Per stare per esempio a giornalisti e media, si va da un decano come Don Albert, ex corrispondente dal Sudafrica per "Down Beat", ad un giovane nero come Sam Mathe, che dirige la rivista "Jazz Life", da Brenda Sisane, che conduce il sabato mattina un programma di jazz su una radio importante come Kaya Fm, ai ragazzi che animano webradio specializzate come Bakgat Radio e All Jazz Radio. Paradossalmente, in questa grande città estesa e policentrica, mi pare di ritrovare un conoscersi, riconoscersi, e in certe occasione ritrovarsi tutti, che fra persone con una comunanza di interessi da noi è tipico piuttosto di città di provincia.

Torno altre sere all'Orbit. Una volta c'è Lindiwe Maxolo, una cantante piuttosto affermata, che va da "Heaven" di Ellington a "Insensatez" di Jobim accompagnata da piano, tromba, chitarra, basso e batteria; poi nel secondo set si passa ad una jam con diversi cantanti, e al piano c'è una giovane pianista che mi impressiona per il tocco e la facilità nell'articolazione, Thandi Ntuli. Dopo affannose ricerche di un negozietto di dischi di jazz che mi hanno indicato, che alla fine trovo dentro un centro commerciale non distante dall'Orbit, compro il suo album dell'anno scorso, The Offering, con diversi vocalist e musicisti, fra cui Marcus Wyatt: molto piacevole ma per i miei gusti un po' troppo leggero - ma questa leggerezza un po' distratta mi sembra un difetto di molto jazz sudafricano attuale - e disorganico nelle situazioni, mentre mi pare che Thandi Ntuli avrebbe il talento per concentrarsi sul solo o sul trio piano-basso-batteria.



Un'altra volta è di scena l'Amandla Freedom Ensemble, guidato dal trombettista Manda Mlangeni, con Oscar Rachabane e Nhlahna Mahlangu, sax tenore, Yonela Mnoma, piano e tastiere, Ariel Zamanowsky (l'unico bianco), contrabbasso, Tumi Mogorosi, batteria, Thebe Lipere, percussioni. Oscar Rachabane è nipote d'arte: il nonno, Barney Rachabane, ancora vivo - abita a Soweto - è una delle più grandi figure espresse dal jazz sudafricano; di Tumi Mogorosi si parla un gran bene ormai anche in Europa; Thebe Lipere - un anziano in questo gruppo di giovani - è stato un veterano della diaspora sudafricana in Europa. L'impianto generale è un po' hard bop, con temi in insieme e soli: ma a evitare il mainstream, oltre ad una originalità di impronta sudafricana in molti brani, e ad un sound sudafricano nell'esecuzione, c'è in alcuni passaggi un certo espressionismo molto corroborante nell'uso combinato dei fiati, con una inquieta articolazione delle voci che mi fa pensare all'Archie Shepp della Impulse anni Sessanta; e qualcosa di sheppiano c'è in Rachabane, nel suo ipnotico improvvisare spezzato, nervoso, sgraziato, spiritato. Fra chi per passare la serata ha scelto di farsi attrarre nell'orbita del jazz c'è anche una gran tavolata di ragazze bianche, quasi tutte bionde. [1 / continua]

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