Cartoline da Saalfelden

Il Festival austriaco, edizione 2014

Recensione
jazz
Cartoline da Saalfelden. O meglio: figurine da Saalfelden. Sorrisi, volti e gesta di chi ha segnato l'edizione numero 35 di uno dei festival di riferimento a livello europeo; tra concerti memorabili, qualche inevitabile delusione e le immancabili sorprese: ci torniamo - con la necessaria riflessione - a qualche settimana dalla fine, per sfogliare l'album dei ricordi: c'è chi ha parlato incautamente di cartellone “minore” rispetto a quello dell'anno scorso o di due anni fa. A mio parere è stata invece un'annata da ricordare.

MARC RIBOT & NELS CLINE
Iniziamo da loro. In coppia perché a braccetto si sono presentati nella serata inaugurale. Sul palco del piccolo-grande Nexus, un gioiello di acustica e raccoglimento, i due campionissimi delle sei corde hanno portato per la prima volta in Europa il progetto che li vede appaiati. Enorme l'attesa - cresciuta a dismisura anche per colpa dei video tratti da un'esibizione newyorchese - e gigantesca la soddisfazione. In poco più di un'ora Cline e Ribot hanno deliziato e incantato, straziato e commosso. Chitarra classica il primo - uno scalcinato modello da studio preso in prestito da una ragazzina -, acustica il secondo, le prime due improvvisazioni sono filate via tra spettrali suggestioni blues, virate folk, furiose accelerazioni, improvvise sospensioni, dialoghi delicati e sommessi. Tutt'intorno, a danzare, i fantasmi di John Fahey, Blind Lemon Jefferson, Django e Sandy Bull. Poi spazio all'elettricità. E alle diavolerie di Cline, la cui capacità di lavorare in tempo reale sulle intuizioni proprie e altrui è sempre più strabiliante. Parlare di chitarra e di chitarrista non ha più senso ormai; diciamo che l'ex virgulto di Julius Hemphill (che per primo lo portò a Saalfelden nell'85 con la JAH Band) è un generatore di suoni, un architetto puntiglioso, un narratore onnipresente. La spalla ideale per un chitarrista “ingombrante” come Ribot, sempre e comunque protagonista. Non a caso il duetto elettrico, forse il momento più alto dell'intero festival, ha brillato non solo per inventiva e ferocia, profondità e spessore, ma anche per l'impeccabile gioco delle parti, gli equilibri perfetti, la miriade di preziosismi e dettagli (emblematici i cinque minuti in cui, appoggiata la chitarra all'amplificatore, Cline si è divertito a dipingere paesaggi sfrigolanti con un riff imprigionato nella pedaliera). A danzare, stavolta, i fantasmi di Jimi Hendrix e Sonny Sharrock, con Glenn Branca ad applaudire in prima fila. Da infarto.

Ma non solo in coppia si sono esibiti Cline e Ribot. Il primo è risalito sul placo del Nexus con il trio Eyebone, creatura del batterista Jim Black, che per l'occasione ha coinvolto nel sabba assordante il giovane pianista-tastierista Elias Stemeseder (impegnato per lo più al Wurlitzer). Spigolosa e vibrante, la musica è arrivata dove doveva arrivare (alle budella) grazie alla brutale propulsione ritmica e a un paio di uscite solitarie della chitarra da levare il fiato. Molto più newyorchese il quintetto Unfold Ordinary Mind, capitanato dal clarinettista Ben Goldberg (che si è dedicato esclusivamente allo scorbutico contra-alto). Assieme a Cline, il batterista Ches Smith e due sassofonisti: Kasey Knudsen e Rob Sudduth. Emozionante lo sviluppo narrativo del set, scandito da temi pensosi e cinematografici; un tantino anemico il risultato finale. Decisamente più elettrizzante il solo di Ribot, che messi da parte Ayler e Scelsi, compagni di viaggio abituali in anni recenti, con il nuovo format Protest Songs ha deciso di giocare al menestrello. Nei panni di un improbabile Ed Sanders (o di un Country Joe, fate voi), e in perfetto stile Village, se l'è presa con l'Empire State Building, i burattinai del web, il proprio corpo, i padroni dalle belle braghe bianche, il capitalismo, Santa Claus, gli aeroporti e i ragazzotti attraenti alla Hugh Grant. Da applausi la zoppicante cover di un super classico della musica messicana: “Rata de dos patas”, cavallo di battaglia della straripante Paquita la del Barrio (ossessione dichiarata di Ribot). In una parola? Sgangherato. Ma che cuore immenso...

HENRY THREADGILL
Era l'atteso protagonista, il mattatore annunciato, il prevedibile zenith... e anche stavolta non ha deluso. Perché, molto semplicemente, Henry Threadgill è un gigante. Che a Saalfelden ha presentato il personale omaggio a un altro gigante: Lawrence D. Butch Morris, amico fraterno e spirito affine. Un omaggio alla Threadgill, ovviamente: ideale più che sostanziale, concettuale più che formale. Sul palco due pianisti e due pianoforti: David Virelles (in stato di grazia) e Jason Moran (che si sta dando parecchio da fare a New York per diffondere le idee di Threadgill, con tanto di festival a tema organizzato in questi giorni); 176 tasti, tra bianchi e neri, a formare la spina dorsale-concettuale dell'ensemble Double Up, completato dai sax di Roman Filiu e Curtis Macdonald (entrambi al contralto), dal violoncello di Christopher Hoffman, dalla tuba del fido Jose Davila e dalla batteria del fenomenale Craig Weinrib; con Threadgill - elegantissimo in competo bianco - a dirigere e punzecchiare, dettare i tempi della partitura e richiamare all'ordine il pigro di turno. La musica? Immaginate una versione più colorata e travolgente degli Zooid; con la stessa ferrea coerenza e il medesimo, caratteristico pulsare-brulicare (un inspiegabile miracolo di incastri e strati che riesce nell'impresa di materializzare un beat che non c'è), ma a un livello superiore di intensità. Più esplicito l'omaggio a Butch nella parte finale del set, quando attraverso la gestualità tipica della conduction Threadgill ha guidato lo sviluppo di un brano tutto giocato sugli unisono e i crescendo. La degna conclusione di un'esibizione memorabile. Chapeau maestro.

SATOKO FUJII E NATSUKI TAMURA
In coppia pure loro. Nell'arte e nella vita, dato che stiamo parlando di moglie e marito. Tre concerti in tutto a Saalfelden per Satoko e Natsuki: un solo a testa al Nexus e un passaggio sul main stage con il quartetto franco-nipponico Kaze. Toccante il solo della Fujii, che con la consueta eleganza ha dipinto paesaggi malinconici ed evocativi, muovendosi tra temi e vorticose improvvisazioni, sulla tastiera e dentro il pianoforte (a un certo punto ha fatto capolino la guizzante “Ninepin”). Un distillato di emozioni forti condito dalla struggente dedica a un paio di amici scomparsi. Magistrale. Di tutt'altro genere il solo di Tamura, trombettista dalla tecnica sopraffina e dall'inventiva illimitata. Soffi, gorgoglii, acuti e sovracuti, note bassissime, giocattolini e ninnoli, campanelli, simpatiche bestioline, grida e latrati: più teatro che musica. Giapponesità elevata al cubo. Ma con estrema coerenza e innegabile urgenza. Affascinante. Molto più europeo il set del quartetto Kaze, completato da Christian Pruvost alla tromba e Peter Orins alla batteria. Di rilucente bellezza il dialogo a quattro imbastito dalla band. Musica eterea, scomposta, vaporizzata, eppure logicamente ancorata a una partitura precisissima. Libertà che si fa struttura, una sorta di rigorosa astrazione. Con le due trombe allo specchio e il pianoforte e la batteria a scandire le tappe del percorso: dal quasi silenzio iniziale a una scoppiettante conclusione. Notevole. E da rivedere quanto prima.

ARCHIE SHEPP
Ha davvero senso recensire l'ennesimo concerto di Archie Shepp? Avete bisogno che qualcuno ancora vi ripeta che del leone del free è rimasto ben poco? Che l'elegante sassofonista in giacca, cappello e cravatta è destinato alla sempiterna reiterazione dell'epica del reduce? Domande oziose solo all'apparenza. Perché fare critica in certi casi è vacuo esercizio di stile. E allora accontentatevi di sapere che pure a Saalfelden è andata come doveva andare, secondo un copione immutabile da più di vent'anni, che ci siano questo o quel musicista ad accompagnarlo (stavolta era il turno del pianista Joachim Kühn, del marocchino Majid Bekkas, spettacolare al guembri, e del batterista Ramon Lopez). Certo, il cuore ha sobbalzato al momento dell'attacco, e ha tremato in un paio di passaggi languidi e potenti. Ma alla fine, spenta l'eco degli applausi (che tristemente sanno di tributo, con ovazione finale a prescindere), è bastato poco per scuotersi e tornare al presente. Che pulsa e passa altrove.

GLI ALTRI
Affollato, come ogni anno, il gruppo dei “gregari”. L'encomio solenne se lo sono guadagnati gli scalmanati texani portati in Austria dal texano d'adozione Ingebrigt Håker Flaten, che a quanto pare, spalleggiato dalla famiglia Gonzalez (il padre trombettista Dennis, con i figli Aaron e Stefan), si sta dando un gran da fare tra Dallas, Austin e Houston per mettere in piedi una scena degna di tale nome. Con risultati lusinghieri a giudicare dall'esibizione del sestetto The Young Mothers, band scompaginata e fracassona oscillante tra il free, l'hip-hop e il metal. Agli antipodi il progetto Claws and Wings di Erik Friedlander, accompagnato da Sylvie Courvoisier al piano e Ikue Mori all'elettronica. Delicata e struggente fino alle lacrime la suite composta dal violoncellista per la moglie scomparsa, una sorta di elaborazione del lutto in musica alla quale era impossibile rimanere indifferenti.

La Courvoisier è stata poi protagonista di un set in trio con Drew Gress al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria, impeccabili nell'assecondare la mania per gli spigoli della pianista svizzera. Jazz acuto e moderno, anche se un tantino frigido. Molto, molto più calda l'esibizione del quintetto del trombettista Amir ElSaffar, che a Saalfelden, oltre al sassofonista Ole Mathiesen, ha schierato una ritmica stellare: John Escreet al pianoforte (segnatevelo questo nome, il ragazzo ha qualità da vendere), Francois Moutin al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Statunitense di madre irachena, ElSaffar si è mosso con discrezione tra jazz e oriente (entusiasmante l'uso delle scale a quarti di tono), senza eccedere negli esotismi e senza mai scadere nel banale. Da urlo un paio di brucianti escursioni di Escreet, così come un solo implacabile di Waits. Implacabili, a loro modo, anche il violoncellista Fred Lonberg-Holm, il contrabbassista Nick Macri e il batterista Charles Rumback, arrivati a Saalfelden da Chicago per la prima europea del trio Stirrup. Un debutto coi fiocchi per una formazione che di solito si esibisce in localacci e bettole del Midwest, portando a spasso un'idea di jazz tanto semplice quanto efficace, incatenata alla pulsazione del basso e all'ipnotico drumming di Rumback (da qualche parte tra Steve McCall e Jack DeJohnette). A Lonberg-Holm, che per l'occasione ha imbracciato pure la chitarra, il compito di declamare e volteggiare, con quel piglio da ragazzotto di provincia che ha sempre qualcosa da imparare (e da insegnare). Infine le italiche truppe, ovvero i Corleone di Roy Paci. Schietto e martellante, il sestetto ha fatto battere i piedini e dimenare i sederoni al pubblico in sala. Un'iniezione in dosi massicce di energia. Bello. Ma viene da chiedersi perché in tanti anni di Saalfelden non sia ancora capitato di vedere sul palco del Nexus o del main stage un gruppo italiano che rappresenti il meglio del jazz di casa nostra. Eppure il talento e le idee non mancano, e certe formazioni farebbero un figurone in un festival del genere (non fatemi fare nomi che non è simpatico). Evidentemente qualcosa non funziona. Nel modo di porsi e di comunicare. Anche in questo il sistema jazz italiano ha molta strada da fare.

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