Effetto Beethoven

A Bonn la Fest in suo nome guarda a intorno a 360 gradi

Recensione
classica
Bonn, tra settembre e ottobre. Il posto ideale per Schroeder, il personaggio dei Peanuts che ha una incondizionata venerazione per Beethoven, e tutti quelli che, come questo bambino biondo (capace di ricavare dal suo limitatissimo pianoforte giocattolo i suoni delle più complesse sonate), portano nel cuore la musica del grande Ludwig. Forte di una tradizione che risale al lontano 1845 (pur con varie interruzioni), l’edizione 2014 del Beethovenfest (dal 6 settembre al 3 ottobre), ancora una volta riesce a galvanizzare la città che, dal termine nel secondo conflitto mondiale fino alla riunificazione, è stata capitale della Germania Occidentale. Col suo fitto programma di uno o più concerti al giorno, il Festival diventa uno dei momenti di primario interesse non solo per Bonn ma per tutta questa area del paese tedesco, una tra le più densamente popolate, ricca di centri urbani (a cominciare da Colonia che è a un passo) e altrettanto ricca di iniziative culturali. La musica qui è riconosciuta come momento di espressione della creatività umana, di aggregazione sociale, di benessere, ecc. insomma tutto quello che in Italia stiamo per dimenticare definitivamente.

A Bonn Ludwig si fa sentire con la sua significativa presenza già grazie a monumenti, strade intitolate, Beethoven-Haus, Beethovenhalle, poi si aggiunge in questo periodo dell’anno la pubblicità del Festival, ma la città mostra chiaramente di avere una vitalità che non si limita al ricordo del musicista. Inoltre, il programma stesso del Festival si caratterizza per un orizzonte ben più ampio dal punto di vista musicale.

Trovare la traccia della carica innovativa e rivoluzionaria dell’arte di Beethoven non solo nella musica che è stata scritta successivamente ma anche nella musica contemporanea, anche quella più popolare. Questo uno dei pensieri di Ilona Schmiel, direttrice artistica del Festival fino all’edizione 2013, e oggi tema caro a Nike Wagner, che ha preso le redini da quest’anno. Già, perché se ormai non è così lontano il 2027, quando ricorreranno i duecento anni dalla morte del compositore tedesco, vero è che cominciano a essere tanti i suoi lavori che hanno superato i due secoli di vita. Rivoluzionari all’epoca e oggi parte sostanziale della tradizione musicale più conservatrice. Frau Wagner sottovoce mi confessa: «Se facessi ascoltar loro Beethoven (o comunque il grande repertorio classico) dalla mattina fino alla sera, qui le persone sarebbero più che contente. Ma siccome il pubblico che segue il Festival è caratterizzato da una buona educazione musicale e una significativa apertura mentale, noi possiamo e dobbiamo andare oltre, riusciamo così a proporre non solo musica del Novecento e nuove produzioni, ma anche interessanti esempi di altri repertori, contaminazioni, ecc.». Il ciclo delle nove sinfonie ha aperto il Festival quest’anno, come è accaduto due anni fa, quello dei quartetti conclude il suo ciclo triennale, è presente la serie dei concerti per pianoforte – ci torniamo più avanti – e Ludwig sarà contento della presenza anche quest’anno del Fidelio. Ma è in compagnia di Messiaen, Gubaidulina, Piazzolla, Beatles, Sting, nonché degli autori dei lavori appositamente commissionati.

Seguo da quattro anni questo Festival, Bonn mi è abbastanza familiare, mi affascina questa società che pare mettere al centro della propria attenzione la semplicità, il buon funzionamento delle cose, la praticità e soprattutto la correttezza delle persone. Un esempio? La Schumann-Haus, dove il compositore trascorse gli ultimi anni di vita, oltre ad avere alcune stanze dedicate all’artista, di fatto ospita una biblioteca pubblica, ricca non solo di libri ma soprattutto di partiture, da fare invidia alla biblioteca di un Conservatorio di media grandezza in Italia. Una cosa normale qui, non certo un’eccezione.

Non mi stupisce l’alto livello artistico delle proposte musicali, quello che mi sorprende è il pubblico, fermo restando che c’è una varietà di proposte che lo rende potenzialmente eterogeneo. Restiamo però sugli appuntamenti più canonici. Il ciclo dedicato ai cinque concerti per pianoforte e orchestra, lavori tra i più conosciuti di Beethoven. Ho seguito due delle tre serate, protagonisti il pianista Leif Ove Andsnes e la Mahler Chamber Orchestra. Giovedì 25 si apriva col secondo concerto e si chiudeva col quarto, in mezzo Apollon musagète di Stravinskij, uno dei prelibati piatti ‘cameristici’ dell’Orchestra che ben conosciamo esser legata al nome del nostro Claudio Abbado. La Beethovenhalle, come accade per quasi tutti gli appuntamenti, era prossima al tutto esaurito, tanti capelli bianchi, certo l’età media degli ascoltatori tende inevitabilmente a essere alta, ma qui c’è comunque una certa mescolanza di età, non pochi giovani e tanti altri che nessuno comunque definirebbe anziani. Che Ludwig strappi gli applausi è cosa nota, ma la differenza di entusiasmo dopo l’ascolto di una partitura non semplice come quella di Stravinskij non è così rilevante come uno si aspetterebbe. Anche perché stiamo assistendo comunque a un rito che ha le sue regole ben precise: durante l’esecuzione predomina la compostezza, i colpi di tosse – malgrado l’età di molti – sono riservati alle piccole pause tra un movimento e l’altro, c’è davvero un’educazione di fondo che crea la comunanza tra generazioni diverse. Sulla bravura degli interpreti non si può aggiungere molto al pieno consenso del pubblico, forse solo suggerire ad Andsnes che potrebbe preoccuparsi meno di dirigere dal pianoforte, con un gruppo di musicisti così solidali tra loro da reggere Stravinskij senza direttore c’è solo da fidarsi a occhi chiusi.

Al centro del secondo appuntamento, sabato 27 settembre, il terzo concerto in do minore, col suo tempo iniziale ricco di drammaticità e di contrasti tematici. Il programma comunque si faceva complesso grazie alla presenza di un altra prelibatezza di Stravinskij, Dumbarton Oaks, la perfezione nell’ascoltare sedici strumentisti che si intendono meglio di un quartetto, e poi la severità di Schoenberg, quel Friede auf Erden per coro a cappella eseguito dal Coro della Radio WDR. A parte l’attimo di esitazione al termine di quest’ultimo brano, gli applausi non si risparmiano, c’è sempre il senso di apprezzamento e di ringraziamento per gli artisti, ma anche il coinvolgimento emotivo di chi ascolta. Naturalmente con la Fantasia op. 80 che concludeva il concerto, l’applausometro avrebbe segnato il massimo livello, ma come impedirlo, visti i toni che sembrano anticipare quell’Inno alla gioia che qui è di casa? “Freunde, Joy. Joie” è il motto della città, plurilingue come il pubblico che del resto si riversa qui, Belgio, Francia e Olanda non sono poi così lontani.

In mezzo ai due citati concerti, l’appuntamento di venerdì 26 con la Baltic Sea Youth Philharmonic, diretta da Kristjan Järvi, un’iniezione di gioventù – una schiera infinita di violiniste, tutte ragazze, e poi gioca a favore certo la presenza dell’ottimo 19enne pianista canadese Jan Lisiecki – che, sul pubblico più attempato, ha lo stesso effetto che avevano le nuotate nella piscina del film Cocoon di Ron Howard. Il viaggio musicale proposto è tra i suoni baltici di Grieg e Sibelius, ma i brani contemporanei che chiudono la seconda parte, vanno verso un universo totalmente alternativo: tutti seguono con attenzione e curiosità l’orchestra negli interventi rap che caratterizzano Never ignore the Cosmic Ocean di Gediminas Gelgotas, mentre un solo movimento dalla Rock Symphony di Imants Kalni?š, basta per scatenare applausi degni di un concerto allo stadio. C’è maggiore disponibilità anche da parte dei più composti spettatori, pronti ad alzarsi in piedi per decretare il successo e ritmare a suon di applausi i vari bis che vengono offerti, oppure è semplicemente il segno di una superiore civiltà musicale?

Nike Wagner, con la delicatezza e i toni moderati che la contraddistinguono, ammette che anche in questa ‘superiore civiltà musicale’ – per loro è una cosa normale, il ‘superiore’ è un mio commento, forse pure il termine ‘civiltà’ non è il primo a venire in mente quando si parla della situazione della musica in Italia oggi – l’occupazione principale per chi deve organizzare eventi è la ricerca dei fondi necessari, un compito che gradualmente si sta complicando. Ma qui grandi sponsor ancora si trovano. Dunque proseguirà anche l’anno prossimo – e il programma sarà il primo totalmente ideato da lei – con questo impegno nei confronti di Beethoven e del mondo in cui viviamo, per riproporre la carica rivoluzionaria del grande Ludwig e scoprirne le tracce nella musica dell’epoca contemporanea. Vista la presenza del solo Paganini nel programma di quest’anno – insomma anche noi eravamo una volta una civiltà musicale superiore… – chiedo a Frau Wagner quanto la musica italiana possa rientrare nei suoi futuri progetti. Mi risponde con un’anticipazione molto interessante: per il Beethovenfest 2015 è stato commissionato un lavoro a Salvatore Sciarrino, un lavoro che sarà una sorta di ‘ripensamento’ su un brano di Beethoven scelto dal nostro compositore. Sciarrino ha scelto la Fantasia per pianoforte, coro e orchestra op. 80, ovvero l’ultimo brano che ho potuto ascoltare quest’anno. Impossibile, a questo punto, non tornare anche il prossimo anno, per questa novità. A proposito, come direbbe Schroeder, in una delle tante strisce dei Peanuts dove è possibile incontrarlo: mancano meno di tre mesi ‘utili’ al compleanno di Ludwig!

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