Il Rof tra paladini e caprette

Riflessioni sui tre titoli del festival di Pesaro

Recensione
classica
L'Armida è tornata al Rossini Opera Festival ventuno anni dopo la precedente e finora unica volta, e ha dato ancora l'impressione di non essere perfettamente riuscita. I problemi nascono dalla debolezza della sua drammaturgia, con sei evanescenti guerrieri cristiani (tutti e sei tenori!) a far da corona ad Armida e a far finta di imbastire un minimo di svolgimento drammatico, mentre invece tutto consiste nel fornire alla protagonista l'occasione di alcuni fascinosissimi momenti di bel canto. In questo contesto perfino le divagazioni - cori e danze di furie, ninfe e amorini, che discendono chiaramente dal gusto dell'opera francese del Sei e Settecento - appaiono musicalmente più felici e drammaturgicamente meno superflue delle arie, duetti e terzetti con cui i sei tenori tirano in lungo le cose, all'unico scopo - si sarebbe tentati di dire - di far arrivare l'opera alla durata richiesta. Poiché siamo convinti che le opere di Rossini - al contrario di quanto a lungo si è creduto e alcuni ancora credono - posseggono una forte organizzazione drammatica, pensiamo che in questo caso la sua assenza comprometta il risultato. Si può capire perciò che Carlo Rizzi non sempre sembrasse particolarmente ispirato e che la sua direzione fosse attenta ma un po' generica - per non dire meccanica - quand'erano in scena i guerrieri cristiani e che si animasse invece quando si trattava di Armida e del suo magico mondo. La giovane Carmen Romeu è un buon soprano leggero che si sta evolvendo verso ruoli più esigenti, ma troppo presto ha deciso di accettare la sfida che pone un personaggio come Armida. Ha un timbro vellutato, ora sensuale ora inquietante, ha un accento incisivo che dà vigore ai recitativi, ma gli acuti sono piuttosto deboli e talvolta striduli e le agilità, seppure precise, mancano d'incisività e di forza. C'erano dunque luci e ombre dunque nella sua prestazione, che tuttavia non meritava i buh, isolati ma molto sonori, che l'hanno accolta già nel primo atto, innervosendola e mettendola ancor più in difficoltà. I sei tenori sono stati ridotti a quattro, perché Goffredo e Gernando compaiono solo nel primo atto, Ubaldo e Carlo solo nel terzo, quindi un singolo interprete può interpretare due personaggi. Nel complesso era accettabile Dmitry Korchak, mentre non c'era molto da salvare, tranne forse la buona volontà, nella prestazione di Randall Bills. Di ben altro livello Antonino Siragusa, che, in un ruolo a lui poco consono di baritenore, ha sfoggiato un registro centrale pieno e ben timbrato, oltre alla sua ben nota sicurezza negli acuti - seppure un po' nasali - e nelle agilità. Corretti nei loro ruoli piuttosto brevi Vassily Kavayas e Carlo Lepore. Luca Ronconi - che già aveva curato la regia della precedente edizione di Armida a Pesaro - ha stupito per la sua rinuncia a stupire con le invenzioni e le macchine che costituiscono la sua cifra più riconoscibile, quando mette in scena un'opera. Piuttosto scontata è apparsa l'idea di far indossare a Rinaldo e agli altri guerrieri cristiani armature identiche a quelle dei paladini dell'opera dei pupi siciliana, col risultato - non sappiamo se voluto o no - di sottolineare il fatto che non sono altre che marionette senza vita. Meno prevedibile era che sparissero l'orrida selva, il giardino incantato, il carro tirato da draghi e tutto il mondo magico di Armida, in cui sono ambientati il secondo e terzo atto: dopo un primo momento di delusione si apprezzavano però anche i risvolti positivi di questa scelta estrema di semplicità, che permetteva di isolare Armida e Rinaldo in una specie di nicchia dorata, in cui vivevano il loro amore, persi l'uno nell'altra. Ma il problema era che queste idee - che le si condividesse o no - rimanevano degli spunti non sviluppati, anche perché mancava un approfondito lavoro di regia sui movimenti di solisti e coro. Sorvoliamo sulle coreografie. Per Aureliano in Palmira si trattava del debutto al ROF, che, fedele alla sua linea filologica, per metterlo in scena ha atteso che fosse pronta l'edizione critica. È questa una tipica opera giovanile, con alcuni squilibri, con momenti che già anticipano i capolavori futuri (e non mi riferisco solo alle pagine che passarono nel Barbiere di Siviglia e in altre opere) e altri ancora acerbi, ma è un'opera complessivamente riuscita, perché a differenza di Armida ha un'organizzazione drammaturgica un po' vecchia ma sicura. A dirigerla era lo stesso curatore dell'edizione critica, Will Crutchfield, che come direttore non è un gran che: tempi spesso molto lenti e sempre metronomici, scollamenti tra palcoscenico e buca, sonorità orchestrali poco curate. Ma almeno conosce a fondo questa partitura, crede nel suo valore, ne individua esattamente il carattere e, nonostante le imperfezioni, le ha reso giustizia. Bene Michael Spyres nel ruolo del titolo e benissimo nella parte della regina Zenobia Jessica Pratt, che ha convinto pienamente per la sua vocalità completa e la sua interpretazione imperiosa. Non è il caso di sottolineare qualche acuto sparato a pieni polmoni, non proprio in stile, e qualche imperfezione nel duetto iniziale, dove è stata forse contagiata dal nervosismo della giovane Lena Belkina, all'inizio comprensibilmente tesa nell'affrontare quest'impegnativa parte scritta originariamente per un castrato, ma poi rinfrancatasi. Mario Martone ha confermato la sua capacità di fare teatro senza orpelli, ma questa volta, forse ritenendolo necessario per dare varietà a questa lunghissima opera seria, ha anche fatto ricorso a qualche espediente non necessario per ravvivare l'attenzione del pubblico, come far entrare in scena alcuni animali (caprette in questo caso). Tra queste due rare opere serie stava il più famoso capolavoro di Rossini, l'opera rossiniana per eccellenza, Il Barbiere di Siviglia. Ne era annunciata un'esecuzione in forma semiscenica ma in realtà si è assistito ad una messa in scena completa, affidata agli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Urbino, che hanno realizzato uno spettacolo giovane, vivace e gradevole, reso effervescente da tante piccole idee originali e e divertenti, che davano a quest'opera buffa la giusta vivacità, senza scadere mai in gag di cattivo gusto. Il maggior pregio della direzione di Giacomo Sagripanti erano i tempi brillanti e in palcoscenico gli rispondeva un cast mediamente giovane, spigliato e simpatico a cominciare dal poco più che ventenne francese Florian Sempey, un Figaro che conquistava subito con la sua cavatina, a cui dava - nonostante il tempo velocissimo - una varietà mai sentita di sottili inflessioni e di ironici ammicchi. Chiara Amarù sprizza simpatia, ha voce fresca e di bel timbro, insomma era una Rosina nata. Juan Francisco Gatell, gradevole come giovane innamorato e spigliato nei travestimenti comici, se la cavava anche nella difficile aria di Almaviva del secondo atto, che aveva tutto da guadagnare dal fatto che il tenore argentino, conscio dei suoi limiti tecnici, evitasse prudentemente di farne un'esibizione di bravura. Paolo Bordogna e Alex Esposito erano più maturi dei loro colleghi ma più giovani degli interpreti abituali di Bartolo e Basilio: questo - oltre a diminuire il ricorso a vecchi e espedienti come il parlato - rendeva questi due personaggi più cattivi e temibili, non i soliti vecchi babbei destinati inevitabilmente ad essere lo zimbello dei giovani.

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