Rufus, o della consapevolezza

Concerto in solo per Wainwright. Tutto esaurito alla Town Hall di New York

Recensione
pop
Forse sono i quarant'anni, o il matrimonio, o l'essere padre. Ma sembra che Rufus Wainwright sappia esattamente quale sia il suo posto nel mondo oggi. Sembrano lontani i tempi in cui si crucciava di non avere un brano in classifica. Un successo vero, di quelli che ti cambiano la vita. Oggi lo desidera ancora, ma dice senza problemi che l'ultimo album è un “Best Of”, non un “Greatest Hits”, e ci ride su. I dischi faticano a vendere ma il palco ė ancora casa, come è sempre stato sin da quando era bambino, figlio di due nomi di culto della canzone folk americana come Loudon Wainwright e Kate McGarrigle. In particolare, in questo lunghissimo tour che lo ha portato in tutta Europa e negli Stati Uniti, il palco di New York è casa. Lo dice a voce alta davanti alla platea della Town Hall, lo storico teatro di Manhattan dove qualche sera fa ha fatto il tutto esaurito.

Solo al pianoforte, erede di quel “One Man Guy” che il padre è stato per la generazione precedente, ha ridotto all’osso le orchestrazioni sontuose dei suoi brani più elaborati. È la sua voce a essere in primo piano. L’ingresso su “Grey Gardens” (con un vistoso copriabito di Jean Paul Gaultier che sembra tanto di impatto quanto di impiccio, e che infatti sparisce quasi subito) è un assaggio minuscolo di quello che sarà questo concerto. Perché in fondo, pur con nient'altro che un pianoforte (o una chitarra, poco dopo), Rufus resta un amante delle cose in grande. Un funambolo che cammina in bilico fra il pop e la classica, fra Broadway e Verdi, fra la sua prossima opera e un duetto con Robbie Williams. Qui, per i duetti, c'è solo la sorella Lucy (le diramazioni della famiglia Wainwright-McGarrigle richiederebbero una mappa ma qui potrebbe bastare sapere che è figlia del padre). È lei ad aprire il concerto in solo, per poi ricomparire a metà spettacolo, più o meno travestita da Liza Minnelli, per cantare con lui “Me and Liza”, uno dei brani di Out Of The Game, ultimo disco di inediti.

Dopo quell’album è successo moltissimo: una raccolta, un disco live, un'opera da comporre e una da incidere. O meglio, da provare a incidere con il crowdfunding: se i suoi fan saranno abbastanza generosi, tra un mese e mezzo la BBC Symphony Orchestra entrerà con lui in sala di registrazione per trasformare Prima Donna in un album. C'è chi ha già contribuito, aggiudicandosi la possibilità di salire sul palco a fine concerto per cantare con lui uno dei pezzi con cui spesso è identificato: “Hallelujah” di Leonard Cohen. Un gioioso momento corale per molti, inevitabilmente lontano dai picchi emotivi che Rufus ha spesso toccato con questo brano. Ma poco importa, è per una buona causa e anche lui ci sorride sopra. In fondo c'è stato un intero spettacolo in cui immergersi nei colori della sua voce. Dal suono sospeso di “Vibrate” a “Jericho”, diretta e immediata; fino a una struggente “Going to a Town” e due inediti: “Friendship” e “Argentina”. In una magnifica sequenza finale, scorrono uno dietro l'altro i piccoli grandi tesori del suo primo repertorio: “Cigarettes and Chocolate Milk”, “The Art Teacher”, “Poses”.



“Candles”, eseguita senza alcun accompagnamento, solo davanti al microfono, è uno dei momenti più alti della serata, non solo per l'intonazione mozzafiato, ma per il peso che ognuna di quelle parole porta con sé. Forse l'aspetto più interessante è proprio questo: Rufus ha un dono per gli arrangiamenti zeppi di dettagli, eppure quando toglie tutto fino a spogliare le sue stesse composizioni, come succede in questo concerto, sembra arrivare dritto all'essenza della loro bellezza, fino a farla brillare di una luce morbida, palpabile. In “I Don't Know What It Is” – un pezzo che svela, strofa dopo strofa, un arrangiamento tra i più memorabili di tutta la sua produzione – mette da parte non solo ogni altro strumento, ma anche l'andamento sostenuto. La confessione della versione originale, quella di un ventenne che sta per andare in riabilitazione per abuso di droghe, diventa una lettera accorata, lentissima, dolorosa. Sembra che il tempo gli abbia finalmente permesso di guardare in faccia quel periodo della sua vita e di raccontarlo senza l'armatura protettiva di un'orchestra. Quello che viene fuori è un essere umano che cammina lento, affondando i passi nel dolore del proprio passato, senza la paura di restarci invischiato.

È con questa forza che è facile scherzare sulla sua stessa carriera e su una raccolta fondi che lo trasforma per un momento nel direttore di un coro sgangherato. Che c'è di male, in fondo? Se poi sul palco riesci a rievocare insieme la debolezza di un tempo e la consapevolezza di oggi, pur sapendo di non essere (ancora?) un nome che verrà ricordato per i record di vendite, allora è tutto più semplice. Devi solo affondare le mani in quelle emozioni, metterti al pianoforte e cantare le tue storie. Perché, come dice in "Candles": "È sempre quel qualcosa di più / che non ti fa avere quello che cerchi / ma che ti porta dove devi andare".

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