L'interprete o l'immagine?

Contro l'ossessione della perfezione tecnologica

Recensione
classica
Si fa un gran parlare di Yuja Wang, la pianista cinese che domina la scena concertistica mondiale, fenomeno assieme musicale e mediatico, persino più interessante del suo collega e connazionale Lang Lang. Ho letto di tutto: lodi sperticate al suo talento, commenti più o meno sarcastici sull’abbigliamento da pin up e recriminazioni di colleghi nostrani che si lamentano della sproporzione fra l'iperattività concertistica della Wang e le sofferenze di molti altri. Dico subito, a scanso di equivoci, che Yuja Wang è sensazionale, la sua fama è inevitabile e il suo talento per lo strumento pianoforte è sconfinato. Ma il fenomeno è interessante perché, stavolta, potremmo essere in presenza di una trasformazione di quelle che un tempo si sarebbero definite epocali. E Yuja Wang ne è solo uno degli esempi.

La storia del concertismo, cioè della separazione netta, non episodica e istituzionale tra la figura del compositore e quella dell'interprete, si impone all'inizio del Novecento. Non ancora con Busoni, Rosenthal e Lhevinne, ma con Gieseking, Nat, Schabel, Rubinstein, Backhaus, Kempff e compagni. Storia del concertismo significa - inevitabilmente - storia dell'interpretazione, meglio ancora affermazione dell'interprete come figura fondamentale e complementare al compositore; il quale, in precedenza, e con eccezioni numericamente esigue, era anche l'unico interprete della propria opera. La storia dell'interpretazione è simultanea all'affermazione dei mezzi di riproduzione sonora, insomma della radio e del disco, e forse non è un caso che l'agonia del disco nella sua forma più recente, cioè il cd, stia coincidendo con la fine dell'era dell'interprete, almeno per come la conoscevamo. Negli anni che vanno dal secondo dopoguerra all'avvento del cd, l'interprete era una figura mitica, leggendaria, e si sostituiva di fatto al compositore. Con Prokofiev, Bartok, Stravinskij e, forse, Shostakovic si esaurisce, infatti, il repertorio classico. Chiedendo venia per la tipica brutalità cronologica delle semplificazioni, diciamo che la musica composta dal '46 in poi non si rivolge quasi mai allo stesso pubblico, anzi - pensiamo a Cage o Stockhausen - sembra scritta contro di esso. Così - per citarne solo alcuni - Lipatti, Michelangeli, Horowitz, naturalmente Glenn Glould, ancora Arrau, Richter, Brendel e, ultimi dei, Argherich, Pollini e Lupu fino al più giovane Sokolov, diventano vitali per il pubblico, riuscendo a declinare il grande repertorio alla luce della loro personalità. Tra l'approccio ipersoggettivo e dandy di Horowitz e quello iperanalitico e oggettivo (illusoriamente oggettivo) di Pollini non c'è differenza di metodo: sono legati inevitabilmente alle personalità dei protagonisti, e tutti in grado di illuminare un brano musicale e farlo rivivere, a prescindere dai gusti del pubblico e dalle idiosincrasie, talvolta isteriche, degli appassionati di questo o quell'altro pianista. Poi succede qualcosa, con la diffusione capillare dei mezzi di riproduzione sonora che diventano anche strumento didattico per i più giovani interpreti: il testo musicale, nelle sue infinite potenzialità, smette di essere il punto di partenza (qui si parla di pianoforte, ma il discorso è generale); il nuovo testo diviene il disco, o comunque la tradizione interpretativa, che si sovrappone e persino si sostituisce al testo, diventando convenzione, accettata – qualche volta acriticamente - dagli stessi giovani interpreti. E, ça va sans dire, accettata dal pubblico.

I concorsi internazionali, ancora (per poco) viatico alle carriere concertistiche, hanno imposto da tempo esecuzioni non troppo personali, in cui la confezione fosse perfetta, impeccabile, a prescindere dalla ricchezza dei contenuti della scatola. Di fatto, fatta salva l'ultima generazione dei pensatori della musica, oggi ridotti a drappello esiguo (penso a Zimerman, Lortie, Lonquich e pochi altri) è sempre più difficile ascoltare una lettura nuova, illuminante ma profonda e non forzata di un brano del grande repertorio. E forse al pubblico non interessa nemmeno più. Oppure, più prosaicamente, si è raschiato il fondo del barile e le potenzialità interpretative del testo sono esaurite. Oggi che la musica classica è di fatto sparita dal panorama culturale e dalle esigenze vere del pubblico, resta il suo rassicurante simulacro, e dunque agli interpreti si chiede soprattutto la confezione. Non che non ci siano nuovi interpreti convincenti anche sul piano dei contenuti, e anzi ci sono molti giovani pianisti seri, intelligenti, creativi e di grande sensibilità, ma insomma le qualità imprescindibili sembrano essere la giovinezza, l'avvenenza e la perfezione meccanica, che è a suo modo un'altra forma di avvenenza. Con una curiosa ma interessante trasformazione della tecnica (che era un rapporto dialettico, drammatico, interlocutorio e creativo fra l'interprete e lo strumento) in tecnologia (in cui l'esecutore e lo strumento sono totalmente integrati in un'entità unica, digitale, infallibile e inanimata). Richter possedeva mezzi tecnici straordinari, ma sbagliava tanto e poteva suonar male. Non succedeva nulla, all'artista era dato di sbagliare, perché l'errore (come l'errare) è parte di un percorso, sempre che si accetti l'idea che l'artista abbia un viaggio da compiere, un Gradus ad Parnassum.

La Wang possiede mezzi stratosferici, una mano che sembra un raggio laser, non sbaglia una nota e nemmeno un gesto. Solo che non c'è un suono che sia uno, nelle sue esecuzioni, che derivi dalla musica, che ne sia conseguenza. Ho ascoltato uno strepitoso Secondo di Prokofiev, in cui c'era tutto, in quantità mortificante per un qualunque pianista bravo; ma non c'erano le corde emotive di Prokofiev, non c'era una dimensione umanistica nell'esecuzione. E la conferma drammatica si aveva nel bis chopiniano, nel quale non un solo suono era davvero bello, pieno, emozionante. La vera rivoluzione copernicana sta - però - nel fatto che, mentre ai tempi di Fou Tsong (ottimo pianista cinese famoso negli anni Sessanta-Settanta), la Cina guardava all'Europa, oggi sono i giovani europei che guardano alla Wang, si ispirano a lei, e - avendo perduto ogni senso della propria storia - è come se aspiranti scrittori italiani cercassero di imparare la lingua di Dante da un cinese che ha imparato l'italiano alla perfezione padroneggiandone anche i più arditi scioglilingua. Nulla di male, in ciò, nessuna condanna, è un dato di fatto. Anche perché pure il pubblico è cambiato, non so quanto gli manchi il calore, la tensione melodica di Richter: saprebbe davvero riconoscerla? Forse, dico forse, no. Non so cosa accadrà, in futuro. È come se, a causa di photoshop che fa scomparire i difetti minimi nelle foto delle modelle di alta moda, si imponesse alla gente per strada di avere l'aspetto levigato e finto delle foto taroccate, perché la realtà non conta più, conta solo la sua rappresentazione che diviene realtà, o iper-realtà. Oggi dobbiamo somigliare ai dischi, i concerti non sono più un momento emozionante ed unico, ma la ricerca della perfezione tecnologica. In questo la Wang e i suoi cloni (sempre più numerosi, giovani e finto-belli) non avranno rivali. Ma a me pare che la condanna alla uniformità perfetta sia una prospettiva torva, plumbea, di fatto sancisca la cessazione della musica come esperienza di libertà in nome di un mercato che controlla tutto e impone il suo potere. Sirene abbaglianti e sinuose, in realtà sfingi impietose. Speriamo non invincibili. Ecco perché ritengo fondamentale ritrovare un rapporto con i nuovi compositori e la nuova musica, che oggi - a dispetto di tutto ciò - esprime, anche in Italia, talenti notevoli e dischiude nuovi paesaggi sonori. Fondamentale per ridare senso alla lettura di un testo non sclerotizzato dalla tradizione, e per ritrovare la dimensione umanistica del far musica; e tornare così alla musica del passato con consapevolezza nuova. Sempre che, nel frattempo, la musica esista ancora.

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