Le carte del Traffic

Qualche considerazione in chiusura del Festival torinese

Recensione
pop
Qualche considerazione sparsa sul Traffic 2013, sul programma, sul pubblico e su un domani incerto.

ELETTRONICA, ART ROCK, ITALIA. Messo su in pochi mesi, senza sapere la location, con meno soldi: inutile nascondersi dietro un dito. Sulla carta, programma del Traffic 2013 non era all’altezza della storia della manifestazione. Eppure – come pochi festival sanno fare – Traffic ha mostrato una apprezzabile linea di continuità con quanto fatto negli ultimi anni, con i tre filoni del rock angloamericano più sperimentale e “hip”, del meglio della scena italiana indipendente, e dell’elettronica più “intelligente” a dividersi il cartellone.

Lo spazio concesso all’elettronica non è certo una novità per il Traffic, ma sembra in crescita, ragionevolmente anche per motivi economici. Eppure non è detto che sia una scelta destinata a pagare: se Traffic insegue Club to Club, sul lungo periodo è destinato a perdere. Ad ogni modo, complice la location, le scelte hanno funzionato ottimamente.

Per quanto riguarda il nuovo “rock”, la decisione di affidare una serata ai These New Puritans non ha superato la prova dal vivo: serata storta o oggettivi limiti live di un gruppo troppo presto asceso a idolo cool? Ai posteri l’ardua sentenza, ma il carisma non elevatissimo del gruppo – insieme ad un live set non troppo a fuoco in molti passaggi – non hanno convinto nei grandi spazi delle “Fucine”. L’altra scommessa – la stessa sera – era la riproposta di un nome storico del rock italiano progressivo degli anni Settanta, Franco Falsini (già Sensations’ Fix), secondo una linea “laterale” già percorsa nella programmazione del Traffic degli ultimi anni. Con tutto il rispetto del caso, la musica di Falsini oggi è parsa davvero di poco interesse, poco sintonizzata su quello che succede nel mondo: si poteva trovare di meglio.

Il “botto” è arrivato – come era prevedibile – con la serata “Hai paura del buio?”, con Manuel Agnelli gran maestro di cerimonie: al netto della retorica con cui è stata presentata la serata, a partire dal “manifesto”, si è trattato di un grande evento, di grande valore e di grande impatto, anche politico.
Del resto, visto il peso specifico dei nomi in cartellone, si può solo prendere atto di valori riconosciuti, e per l’ennesima volta: gli Afterhours e il Teatro degli Orrori (con Capovilla che canta sempre meno, per quanto questo possa essere possibile) sono due fra i live più poderosi che si possono ascoltare oggi in Italia; Daniele Silvestri è una vecchia volpe della canzone d’autore, che vanta un canzoniere di singoli capace di avvincere anche l’ascoltatore non affezionato, e via così.

Fatti salvi i valori dei “big”, le cose più interessanti si sono ascoltate a margine, ed erano quasi tutte incentrate sullo stacanovismo di Enrico Gabrielli, impegnato letteralmente dal liscio alla contemporanea, da Casadei a Reich: il suo Der Maurer con Sebastiano De Gennaro è una meravigliosa creatura ibrida figlia della musica contemporanea (e l’esecuzione di “Clapping music” di Reich, senza microfoni, nell’eco della “Sala Duomo”, è fra i momenti migliori dell’anno). La novità è invece l’Orchestrina di molto agevole, dedicata al repertorio del liscio classico, intorno a Secondo Casadei (voci ospiti: Vincenzo Vasi, Valeria Sturba e Roberto Dellera): niente di nuovo (su queste pagine abbiamo spesso parlato della rivalutazione del liscio), ma Gabrielli va apprezzato per la sua capacità di contrabbandare altre musiche – siano esse il liscio, l’avanguardia colta, o quant’altro - in contesti anomali, rifunzionalizzandole e reinventandole artisticamente.
Di grande valore anche il progetto Ooopopoiooo di Vincenzo Vasi e Valentina Sturba (con ospiti Gabrielli e De Gennaro): loop ipnotici, theremin, occasionali aperture cantate con una sensibilità quasi alla prog italiano d’antan: da approfondire.

Cupezze e bassezze corporali sono la cifra di La morte, progetto di reading elettronico con Giovanni Succi (metà vocale dei Bachi da Pietra) e Riccardo Gamondi (metà elettronica di Uochi Tochi): il reading – se seguito nella sua interezza – è in grado di indurre fascinazioni e profonde inquietudini (provare per credere).

IL PUBBLICO E IL FUTURO. Traffic è un festival d’eccellenza nazionale (e per un certo periodo internazionale) che negli ultimi anni ha cambiato casa in mezzo ad assurde polemiche – dall’ordine pubblico al rumore – trattato neanche fosse un campo nomadi abusivo. Nonostante questo, anche per la coerenza della scelte artistiche – e anche in vacche magre – è riuscito a mantenere un appeal sul pubblico che nessun altro festival torinese ha: al Traffic la gente ci va, indipendentemente dal programma e dai nomi in ballo. Perché “si fida”, perché nutre affetto per l’evento, perché il festival è un evento sociale, oltre che culturale... Basta pensare a quanti hanno visto i These New Puritans nell’ultimo passaggio torinese: l’ordine delle cifre passa dalle decine alle migliaia, e la gratuità da sola non basta certo a spiegare il fenomeno.

Risultato: con il programma meno altisonante - e potenzialmente meno interessante - nella sua storia, Traffic ha fatto il pieno. È stato collocato in una location incredibile (le OGR), con capienza sì limitata: ma – attenzione – la gente rimasta fuori per motivi di sicurezza vale molto di più della piazza piena. In piazza si va per i concerti, per mangiare, per prendere il gelato, per far due passi. Alle OGR si andava per andare al Traffic, e solo al Traffic, visto la birra era pure cara. Una prova di forza, vinta.

Che dati si possono trarre? Uno solo, sicuro: la direzione artistica, al netto delle scelte obbligate e delle sbavature di una programmazione messa su in troppo poco tempo (se uno pensa: i grandi festival estivi internazionali hanno già il cartellone in preparazione ora…) ha mostrato le proprie carte, e ha messo il carico. Ora la mano sta alle istituzioni. Al termine dell'estate torinese più musicalmente depressa dell'ultimo decennio, perdere anche il Traffic sarebbe più di un brutto segno.

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