Elogio della piccolezza

Il racconto del Premio Loano 2013, fra ballo liscio, canzone siciliana e musiche per sposalizi

Recensione
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In nove anni di musicisti e operatori ne sono passati parecchi, a Loano. Eppure, il Premio Nazionale Città di Loano rimane una realtà piccola, locale. Mai provinciale, però: una “mecca”, piuttosto, (la definizione è di Mario Incudine), “la mecca” per chi si occupa di musica popolare in Italia, oggi.
Una realtà piccola e dunque tarata – come è ovvio – su un circuito piccolo, fatto spesso di etichette a conduzione familiare, di enti e finanziamenti alla canna del gas, di musicisti sottoesposti – e molto – rispetto alle loro potenzialità. Ma una realtà che, proprio in virtù di questa “piccolezza” (virtù che dovrebbe essere aggiunta alle calviniane “leggerezza”, “esattezza” e dintorni) mantiene una dimensione umana prima che artistica e promozionale, fatta di rapporti vivi e salutari. E che riesce a ricordare, a premiare, e a far conoscere "grandi" e “piccoli” protagonisti della storia della musica nazionale: da Alberto Cesa e Cantovivo, omaggiati in apertura di Festival, al musicista-pastore Alfio Antico, insignito del “Premio alla carriera”. Da Jannacci alla “periferica” – ma non per questo meno monumentale – Enciclopedia della musica sarda curata dall’etnomusicologo Marco Lutzu (insieme con Francesco Casu). O ancora, al Circolo Gianni Bosio di Roma: un’occasione anche per gettare un fascio di luce sulla situazione degli archivi sonori in Italia…





Il “Premio” vero e proprio (assegnato da una giuria di giornalisti specializzati) è andato al già citato Mario Incudine per Italia talìa. Incudine si è esibito il mercoledì sera sul lungomare, fra un pubblico sorprendentemente entusiasta e in vena di scatenarsi (l’età media, come di consueto a Loano, è piuttosto elevata). Il canta(u)tore parte dalla sua Sicilia per parlare di un’Italia «che guarda, e si meraviglia» (come da titolo: taliari sta per “guardare”). Parla di Fiat, di operai e minatori, di amore, di paternità. Supportato da una band dalla doppia anima, fra una ritmica piuttosto pop-rock e gli incisi affidati spesso a fisarmonica/zampogna (a cura dell’ottimo Antonio Vasta) e fiati, Incudine mantiene alta la pulsazione ritmica e la temperatura emotiva del concerto. Parte del suo (meritato) successo sta proprio in questa vena “etno-pop”, con soluzioni di arrangiamento intelligenti ma mai “difficili”, a servizio di testi lirici e potenti.





La sera seguente è tutta per il ballo, invece: alle danze sarde, con il duo Gilberto Cominu / Bruno Loi, e i ballerini dello stage di danza tenuto da Lucio Atzei, si affianca il liscio di Secondo a nessuno. È davvero una piacevole opportunità sentire in concerto il gruppo di Claudio Carboni (ai più noto per essere il sassofonista di Banditaliana). Carboni – insieme con i suoi compagni di viaggio: l’altro Banditaliana Maurizio Geri alla chitarra e alla voce, e i giovani virtuosi Michele Marini al clarinetto e Daniele Donadelli alla fisarmonica – si è dedicato alla riscoperta dello sterminato repertorio di Secondo Casadei. Il progetto, messo in piedi per la Biennale del Paesaggio 2008, è anche documentato in un bel disco Tacadancer/Sheherazade. Se l’idea di partenza era quella – in qualche modo – di “ripulire” il liscio dalle basi midi e dallo “svacco latino” che ne hanno fatto una musica disprezzata dai più, restituendogli una sua dignità artistica oltre che “popolare” in senso più nobile, la riuscita dell’operazione dal vivo apre ulteriori e ben più interessanti scenari. Se – infatti – si è parlato di operazione “filologica” (parola da usare sempre con molte cautele), il risultato racconta piuttosto una musica ricchissima di spunti e idee, per nulla chiusa in se stessa ma, anzi, attentissima al mondo, colma di suggestioni e rimasticazioni americane (dal tango alla beguine), operistiche (splendida la sequenza rossiniana proposta in coda di concerto), di virtuosismi, di idee e soluzioni melodiche assolutamente geniali, e in cui persino la tanto attesa “Romagna mia” si può ascoltare con orecchie diverse. Più che filologia, dunque, una grande opera di ripensamento intellettuale di una musica: esercizio che dovrebbe essere esteso a molti altri repertori. L’eccellente tecnica strumentale, insomma, è superata dall’intelligenza…

Ed è curioso l’accostamento, la sera successiva, con l’operazione tentata da Vinicio Capossela nella sua produzione più recente, quella della Banda della Posta (documentata in un cd fresco di stampa, prodotto da La Cupa). Il repertorio, qui, è quello di «mazurke, polke, valzer, passo doppio, tango, tarantella, quadriglia e foxtrot, che era in fondo comune nell’Italia degli anni ’50 e ‘60» come musica «da sposalizi».
Era lecito partire prevenuti, per via dell’odore di “Buena Vista” corretto salsa di pomodoro che tutto il progetto emanava: musicisti non professionisti, di una certa età, “scoperti” da Capossela a Calitri (in Irpinia) con tutto il corredo di mitologie dell’autenticità popolare ormai ben note a tutti… Eppure, se il disco – in parte – corrobora queste impressioni, dal vivo la storia è tutta diversa. Capossela affianca ai ballabili del gruppo una serie di versioni di suoi brani (splendide: “Con una rosa” versione beguine, “Che coss’è l’amor” e “Pryntil” trasfigurate in foxtrot) e di cover assolutamente geniali, sempre a metà strada fra un suono “popolaresco”, rappresentato dai due mandolini, dal violino e dalla fisarmonica, e suggestioni Tex-Mex, con chitarra riverberata e organo Farfisa (entrambi un vecchio pallino di Vinicio): due omaggi a Matteo Salvatore, “Apache”, che diventa “Si è spento il sole”, “La notte” di Adamo (!), “Gambale twist” dei Barritas (!!), “Manuela” di Rocco Granata (!!!). Pura classe vintage. Il pubblico gradisce, e il tutto – nonostante le sedie arrivino quasi a ridosso del palco – si trasforma in una grande festa da ballo, com’era nei propositi.



Questo – e molto altro – è stato il menu di Loano 2013: non è dunque tanto questione di “radici profonde che non gelano” (come recita il “sottotitolo” del festival, da sempre), ma di resistenza (ed “esistenza”) culturale e, dunque, civile e politica: c’è da ringraziare posti come Loano, che conferiscono senso – per una settimana all’anno, almeno – al lavoro che facciamo e che amiamo fare.

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