Allevi e la musica d’oggi

La gaffe su Beethoven e la mancanza di ritmo

Recensione
classica
La recente sortita del povero Allevi (Beethoven non ha ritmo, Jovanotti sì) ha suscitato, stavolta, una pressoché unanime indignazione, persino sui fatidici “social”, e finanche da parte dei cultori del venerato Maestro marchigiano (indignazione non so quanto consapevole e motivata, ma fa nulla). Sia detto per inciso: la Melandri, quando era ministro della Cultura, paragonò sia pure in termini diversi Beethoven e Jovanotti, evidentemente marcatori culturali di una generazione di splendidi quaranta/cinquantenni. Stavolta non posso che solidarizzare con Allevi perchè è stato proprio sfortunato: ha pescato, infatti, fra tutti i musicisti del creato, quello che col ritmo ha il rapporto più stringente, sconvolgente ed efficace. È stato un po’ come affermare che – nel descrivere una scena drammatica – Dante sia meno efficace di Federico Moccia. Non sarebbe cambiato molto se solo avesse evocato Faurè, Berlioz, Skrjabin, ma la figuraccia sarebbe stata meno clamorosa. Non credo si debba ironizzare, perché in casi come questo è piuttosto preferibile un imbarazzato silenzio.

Ma cosa fa esattamente, Allevi? Che tipo di musica scrive e suona? Allevi, innanzitutto, è un pianista-compositore. Egli non suona (quasi mai) musiche di altri autori; quando lo faceva, il suo nome si confondeva fra le centinaia di giovani pianisti di speranze più o meno belle. Allevi, dunque, suona musica scritta da lui, e lo fa in maniera assai appropriata, nel senso che egli sa scrivere “a sua misura”. Tale musica è di immediata piacevolezza e suona familiare, amica, spontanea. Nella tradizione aurea dei pianisti come Clayderman, o Stephen Schlacks, o Peter Kater. Ora, mi sembra interessante notarlo, se Allevi andasse in giro a suonare Beethoven e Brahms, (oppure Bill Evans e Thelonious Monk) dopo un primo momento di legittima curiosità, è assai probabile che il pubblico non affollerebbe i suoi concerti. Allevi non è un pianista puro. Quando però è un altro pianista (molti giovani oggi lo fanno) a suonare la musica di Allevi in concerto, il successo è pallido, e non raggiunge gli esiti di una bella esecuzione di un qualunque brano del repertorio classico. È, questo, un punto importantissimo che segna – a mio avviso – una differenza forte e profonda tra Allevi e la musica colta, cui – talvolta – egli ha il vezzo di dichiararsi parte, sostenendo di essere un compositore di musica classica contemporanea.

Ciò che caratterizza, infatti, la musica colta, il vero discrimine in grado di superare anche le insidie rappresentate dai tanti diversi stili e linguaggi della scena contemporanea, è il primato del testo. Una Sonata di Beethoven o Evryali di Xenakis, che siano eseguiti da un bravissimo neodiplomato o da un noto pianista in carriera, non mutano le potenzialità espressive, nè la propria complessità, continuando a funzionare – ineffabilmente – come un perenne, insolubile arcano. Corollario classico, e ormai universalmente accettato, ne è che il compositore non è il migliore interprete della propria musica, non necessariamente almeno. E ciò vale anche per i musicisti che sanno suonare o dirigere, e lo fanno. Michael Nyman, Frederic Rzewski, Philip Glass, Pierre Boulez, John Adams – per quanto accreditati – non sono gli unici interpreti delle loro musiche, il cui apprezzamento dipende essenzialmente dalla qualità dell’esecuzione. Con Allevi non è così. La forza, il carisma del personaggio sono prevalenti. A dispetto di qualità strumentali non proprio superlative. Quando ero studente di liceo, classico ragazzino timido e impacciato alle prese con un’età difficile, capitava che – nelle piccole feste o in occasioni di incontro serale – compagni e compagne mi chiedessero di suonare qualcosa. Io, ma la stessa esperienza è capitata a tutti i miei colleghi pianisti, accettavo, per poi pentirmene inevitabilmente. Le reazioni erano più o meno standardizzate: “Non ha sbagliato una nota”, “guarda come muove le mani sulla tastiera”, “che velocità”, “che bravo”. Nessuno di questi commenti era sostenuto da una competenza anche minima, ma soprattutto ciò che emergeva era la totale estraneità emotiva di questi miei compagni rispetto a quanto suonavo. Schumann, Debussy, Beethoven appunto, figurarsi Schoenberg o Berg, erano aramaico per molti di loro, mondi con cui era difficile relazionarsi, specie – e questo mi pare importante – in contesti caratterizzati da una forte collettività, dalla prevalenza del gruppo come elemento identitario. Allevi ha avuto la formidabile capacità di fornire a questo rito giovanile (il pianoforte come feticcio della cultura alta, da perpetuare con distratta superficialità) un repertorio perfetto, una colonna sonora impeccabile. Il pianoforte che suona, che emette suoni, senza fare veramente della musica, insomma; senza richiedere alcuno sforzo, alcun moto d’intelligenza. Che in ciò vi sia qualcosa di male è, ovviamente, assurdo pensarlo. Ma che ciò coincida con il futuro della musica colta lo è almeno altrettanto.

Proprio per queste premesse non sono del tutto persuaso che Allevi sia in grado di avvicinare i ragazzi alla musica classica. Forse è meglio che i ragazzi scoprano cos’è la musica classica ascoltandone le espressioni più alte, anche legate alla nostra contemporaneità. Certo, per decenni ci è stata imposta come l’unica nuova via possibile una musica non sempre di qualità, non sempre scritta da musicisti di talento, non sempre bene eseguita. Il sistema della musica contemporanea rischiava di divenire una sorta di compagnia di autoflagellanti, che ogni tanto si divertiva a punire anche qualche malcapitato passante, nella convinzione che a flagellare non si sbaglia mai, un colpo di frusta ogni tanto fa bene a tutti, e a ben guardare ce lo meritiamo. Io credo che esista musica scritta benissimo, piena di idee, ma difficile da ascoltare, o che richiede un grande e costante impegno d’ascolto. Ma vi è anche musica colta di forte ed immediato impatto emotivo, che rappresenta per l’ascoltatore una esperienza altrettanto autentica, forte, intensa. Forse Allevi ci suggerisce che vi sarebbe un pubblico potenziale, da prendere per mano, e al quale far sapere, innanzitutto, che una musica colta contemporanea esiste eccome. Che è caratterizzata da estrema varietà e ricchezza di stili. Che è facilissimo ascoltarla in disco, scaricarla da emule o direttamente dai siti dei compositori. Che si può arrivare a Pli selon Pli di Boulez (sempre che ci si voglia arrivare davvero) partendo da Arvo Pärt, da John Adams, da Louis Andriessen, da Howard Skempton, e poi – magari – Toru Takemitsu o György Ligeti. E che queste esperienze sono importati non solo in sè, ma anche per dare nuova linfa alle interpretazioni della musica del passato, talvolta – specie nei più giovani esecutori – impigliate in una stanca ripetizione di clichè o, peggio, in una nevrotica ricerca di originalità a tutti i costi. Molto vi è da fare. Svecchiare programmi, riflettere sulle modalità del concerto, proporre (e saperlo fare) nuovi percorsi d’ascolto, prendere atto di un mondo che è cambiato e nel quale Google e YouTube non sono meri dettagli.

Il problema, forse, non è la crisi del pubblico, ma la difficoltà (di compositori, interpreti e soprattutto organizzatori) di stabilire un contatto con questo pubblico. L’impressione è, per parlare in termini informatici, che nel mondo della musica classica si usino software ormai vetusti, con i quali i files non si aprono più. Non scambiamo, per carità, la qualità del software con il valore del contenuto, errore oggi comunissimo e imperdonabile. Ma cerchiamo di capire che senza una rivoluzione culturale, o almeno la presa d’atto dei cambiamenti già avvenuti, la musica classica resterà impigliata in meccanismi che rischiano di favorire un’aurea mediocrità. Voglio sperare che la battaglia possa essere vinta.

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