Torino Jazz Festival 3 | Giorni di pioggia

Il bilancio finale del festival di Torino: successo (con qualche critica)

Recensione
jazz
Si è concluso con una giornata serena – finalmente – il secondo Torino Jazz Festival. Per la grande “Festa jazz” del 1° maggio si sono alternati in piazza numerosi gruppi, davanti a un pubblico folto – sebbene non sempre attentissimo. Alto il livello di (quasi) tutte le proposte artistiche. Citiamo almeno la commovente esibizione del quartetto di Roy Haynes, che ad 88 (ottantotto!!) anni quando suona pare un ragazzino: intrattiene il pubblico, lascia ampio spazio ai suoi giovani compagni (Martin Bejerano al piano, Jaleel Shaw al sax, David Wong al contrabbasso) e si concede anche un lungo assolo, tutto giocato sul charleston. Peccato per i suoni non all’altezza, che penalizzavano (guardacaso) proprio la batteria.

L’accostamento con il gruppo successivo – Is What? – ha permesso anche di confrontare lo stile di Haynes, tutto giocato sui piatti, con quello opposto, molto sui tamburi, di un altro “gigante” dello strumento, il ben più giovane Hamid Drake. In supporto alle rime di Napoleon Maddox, Drake si dimostra una implacabile macchina da groove. Is What? è probabilmente la cosa migliore ascoltata in tutto questo Torino Jazz Festival, anche come suprema sintesi di cosa possa essere oggi il “jazz”: Maddox e soci riassumono tutta la musica nera, mettendo al centro la parola tanto come contenuto (con testi spesso impegnati, puntuali e pungenti) quanto come forma, come puro suono (fino al beatbox del leader). La piazza, che pure in buona parte non aveva idea di chi fosse questo “rapper” da Cincinnati, Ohio, balla in massa.
Dopo questo, appare decisamente meno interessante la proposta muscolare e ipertecnica di Mike Stern e Bill Evans, che pure mantiene alta la temperatura di Piazza Castello. Ancora meno interessante è la chiusura affidata a Simone Cristicchi, nonostante i pur bravi Funk Off: c’è davvero da chiedersi che ci facesse lì – anche volendo indagare la canzone italiana contemporanea, si potevano sicuramente trovare idee migliori, e migliore qualità. Una pecca, davvero una delle poche, in una programmazione che pur cercando di incontrare più gusti possibile ha raramente perso di vista la barra della qualità. Si può ancora crescere, ma la “rifondazione” – dopo la scorsa edizione – c’è stata, eccome: onore va al direttore artistico Stefano Zenni, a cui auguriamo di cuore di poter far crescere i semi piantati.

Archiviato il tutto, possiamo fare alcune necessarie riflessioni, dal momento che il Torino Jazz Festival è stato da subito (cioè dall’anno scorso) al centro di un fuoco incrociato di critiche, molte delle quali – occorre dirlo – pienamente giustificate.

1) LA PIOGGIA. A Torino fra 25 aprile e 1° maggio piove quasi sempre. Fate un giro sui siti meteo, e cercate negli archivi: non è una legge fissa, naturalmente – ma il rischio è reale. Su due anni di Torino Jazz Festival, per due anni ha piovuto. La pioggia ha condizionato molti concerti, e il resto ha fatto il freddo: a vedere la Cosmic Band di Petrella in Piazzale Valdo Fusi c’era poca gente – e pure aveva smesso di piovere poco prima. In Piazza per Mulatu Astatke c’era una folla di coraggiosissimi, bagnati fradici. Ma potevano essere - dovevano essere - dieci volte di più, vista l’eccezionalità di entrambi i concerti. Un festival che mira a portare musica di qualità gratuitamente in piazza, e quindi a raggiungere più gente possibile e a far venire i turisti, non può ignorare che se piove e la gente non viene, ha fallito il suo obiettivo.

2) LA PIAZZA. Il paradosso nel paradosso del festival all’aperto si è verificato al termine del concerto di Abdullah Ibrahim, spostato causa acqua da Piazza Valdo Fusi al Teatro Regio. Coda per prendere i tagliandi, gente rimasta fuori, presenti in visibilio per un concerto a detta di molti straordinario (fra questi, l’assessore Braccialarghe). Moltissimi, compresi addetti ai lavori e organizzatori, hanno ringraziato la pioggia: «Come avremmo fatto a fare un’ora e mezza di piano solo improvvisato in piazza?». Esatto. Non si può fare – o meglio, si può fare ma perché farlo? Perché snaturare un tipo di musica che esige un ascolto concentrato? In piazza, se si vuole fare la “festa” (come era nei proclami), si deve anche tollerare che la gente parli, urli, beva, che i bambini corrano in giro e che gli indiani vengano a disturbarti per vendere le rose. La domanda è: questo è compatibile con l’ascolto di un piano solo? O si nasconde, dietro un ticket pagato al nazionalpopolare, un’incomprensione delle specificità di certe musiche? (Non mi riferisco, naturalmente, al direttore artistico Stefano Zenni, che è ben consapevole di quello che ha programmato).

3) LA GRATUITÀ. Un festival gratuito, per giunta costato 900mila euro (e non importa che siano soldi pubblici, privati o semi-pubblici, visto che provengono da un’azienda municipalizzata) manda un messaggio sbagliato. Soprattutto in questo momento, in cui – a Torino e non solo – i locali che fanno musica dal vivo chiudono, o sono in difficoltà, o non pagano i musicisti. Non si capisce perché sia tollerato che il costo del cinema aumenti, e la musica debba essere svenduta a gratis sulla pubblica piazza. Farlo è uno schiaffo a quanti fanno programmazioni di livello senza uno straccio di finanziamento.
Si badi: non è un discorso snobistico o d’élite. Ma se un festival pubblico deve educare il pubblico e non solo intrattenerlo (altrimenti, perché fare eventi culturali? Si finanzino la lotta nel fango e i concorsi di Miss maglietta bagnata), allora si deve cominciare con le basi. E cioè che la musica e la cultura costano. Perché non fare una politica di prezzi popolari nei teatri cittadini e alcuni eventi gratuiti in piazza? (Si risolverebbe anche il problema al punto 2.). Non tutto gratuito, non tutto in piazza.

Se, come dicono in molti, il modello del mecenatismo pubblico non è più sostenibile, il futuro della cultura passa anche per la creazione di un pubblico che possa sostenerla. Anche nei giorni di pioggia.

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