Il mondo sonoro di Julia Kent

La violoncellista e performer a Parma

Recensione
classica
Oggi, di fronte al fitto intreccio di matrici stilistiche che ha a disposizione, un artista può scegliere con grande libertà quale direzione è più affine al carattere musicale che vuole esprimere, oppure può muoversi negli interstizi tra un genere l’altro, rinunciando ad essere incasellato in questa o quell’altra tendenza mainstream, seguendo come unica bussola il proprio istinto espressivo. A questa categoria sembra appartenere Julia Kent, protagonista del concerto ospitato sabato scorso sul palcoscenico del Teatro Due di Parma in occasione della XXX edizione di Teatro Festival.
Il concerto “a solo” della Kent rappresentava il secondo di tre appuntamenti musicali molto differenti tra loro – il precedente “Apoteosi e Follia” dell’Europa Galante di Fabio Biondi e il seguente (25/11) omaggio ad Antonín Dvořák del Trio di Parma – proposti significativamente da un teatro di prosa che si conferma una delle fucine più attive e intraprendenti del panorama emiliano.
Cresciuta a Vancouver e avviata alla musica classica dalla madre violinista, dopo essersi trasferita a sedici anni a Bloomington frequentando il conservatorio dell'Indiana University, nel 1989 Julia Kent arriva a New York e inizia l’esplorazione di un mondo musicale estremamente stimolante, coltivando l’amore del violoncello sulla scia dell’esempio di musicisti come Arthur Russell, compositore e violoncellista anticonvenzionale riscoperto soprattutto dopo la prematura scomparsa avvenuta nel 1992. Un percorso, quello della Kent, che ha conosciuto l’esperienza del gruppo Rasputina – trio femminile di violoncelli – per poi maturare collaborazioni variegate con nomi quali, tra gli altri, Ben Weaver, Leona Naess, Devendra Banhart e Donovan, fino a far parte integrante del gruppo di Antony and the Johnsons – disco di riferimento “I am a bird now” – dove, oltre a suonare il suo strumento, collabora agli arrangiamenti. Oltre al rapporto con Paolo Sorrentino per l’utilizzo del suo brano “Gardermoen” nel film “This Must Be The Place” – la cui colonna sonora, per il resto, è stata curata da David Byrne – il rapporto di questa artista con il nostro paese si è concretizzato, tra l’altro, in collaborazioni con Marco Milanesio, membro dei Blind Cave Salamander, con il gruppo torinese dei Larsen per l’album “Cool Cruel Mouth”, o ancora con Barbara De Dominicis e Davide Lonardi per il progetto pluriennale e multimediale “Parallel 41”.
Il percorso discografico della Kent inizia nel 2007 con “Delay” – ispirato al disorientamento legato al senso dei luoghi del viaggio, vale a dire una sorta di versione edulcorata di “Music for Airports” di Brian Eno – passa per l’EP “Last Day in July” (2010) e arriva a “Green and Grey”, album uscito lo scorso anno affrontando il rapporto tra natura e tecnologia e che ha rappresentato la base del concerto dell’altra sera, alla quale si sono aggiunti un paio di brani che appariranno nel nuovo disco in uscita il prossimo anno, uno dei quali dedicato al terribile passaggio newyorkese dell’uragano Sandy. Il clima espressivo che ha segnato il concerto è stato plasmato dai gesti della Kent che, sola sul palco mentre abbracciava il suo violoncello accarezzato con l’archetto, gestiva con i piedi effetti elettronici che fungevano da base per le sue peregrinazioni melodiche, ora sovrapponendo frasi registrate in tempo reale, ora innestando essenziali pattern elettronici con cadenze ritmiche variegate. Un mondo sonoro estremamente minimalista, non tanto per le costruzioni musicali congegnate su arpeggi e giri armonico-ritmici reiterati ed emotivamente evocativi – non a caso la sua musica ben si presta alla narrazione audiovisiva – ma soprattutto per l’essenzialità del materiale con il quale la Kent plasma i suoi brani. Luoghi musicali dove la fantasia di questa artista trova una dimensione tanto originale quanto a tratti monotona, che da un lato manifesta il merito di indagare in solitudine le potenzialità espressive di un antico strumento accoppiato ad innesti dell’elettronica, dall’altro sconta un’uniformità di colore che emerge da una semplicità di fondo dell’invenzione musicale. Un dato, questo, che – proprio nell’ottica della libertà creativa di cui si diceva all’inizio – può anche rappresentare il puto di forza per la musica di un’artista istintivamente genuina, che ha raccolto un caloroso consenso da parte del pubblico presente in sala.

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