Lo spessore etico di Feldman

Come Beethoven scuote e mette in crisi il senso comune

Recensione
classica
Venerdi scorso ero a Bologna, ho assistito al concerto dell’Orchestra del Comunale con Zagrosek sul podio. In programma musiche di Beethoven (Coriolano), Feldman (Turfan Fragments) e Schubert (la “Piccola”). In origine, di Feldman era stato programmato Coptic Light, forse il mio brano preferito del maestro americano. Ma, in Italia, ascoltare Feldman in una normale stagione sinfonica è in ogni caso un fatto straordinario, dunque non c’era tanto da sottilizzare. Marc Andreae, direttore svizzero con cui ho suonato spesso, mi aveva parlato di quel brano di Feldman, da lui commissionato al compositore americano nel 1981, quando Andreae era alla guida della RSI di Lugano. Mai avevo avuto fin qui l’occasione di ascoltare Turfan Fragments. Non desidero parlare tanto del pezzo in sé. Che è molto tipico di Feldman, con accordi dai colori meravigliosi - Feldman è stato tra i musicisti del suo tempo con il più spiccato senso della verticalità – ripetuti inesorabilmente, una sfilata di pannelli cangianti luce e colore. La durata, relativamente ridotta, gioca a vantaggio della concentrazione d’ascolto, anche se – con la musica di Feldman – concentrarsi può felicemente identificarsi con il perdersi, abbandonarsi al flusso amniotico di una musica che si muove nello spazio più che nel tempo. È che, ascoltando il brano in sala, ho avuto modo di osservare le reazioni del pubblico. Alcuni erano presissimi e concentrati, molti e molte – specie tra i meno giovani – agitavano la testa per esprimere una garbata perplessità, qualche timido vocìo, qualche commento silenzioso, guardando il proprio vicino di sottecchi. Alla fine applausi intensi e prolungati (più che per il Beethoven) da una metà del pubblico. Silenzio dell’altra metà. A mio modo di vedere, un successo. Qualcosa è accaduta davvero, quella sera, per quanto forse in pochi l’abbiano percepita con chiarezza. A me una indicazione, netta e forte, è arrivata, e l’ho raccolta con il desiderio di comunicarvela. La musica di Feldman è grande anche perché possiede uno spessore etico; in questo mi pare perfetto l’accostamento, apparentemente paradossale, con Beethoven. Perché, come Beethoven al suo tempo – senza voler paragonare l’imparagonabile, ovviamente – Feldman scuote e mette in crisi il senso comune. E di senso comune la nostra società (anche musicale) è pesantemente ammalata. Ne vediamo costantemente le conseguenze (ho appena letto il blog di Giorgio Pugliaro a riguardo). La mancanza di senso critico, la mancanza di curiosità, il non capire che la musica deve porre delle domande più che fornire risposte rassicuranti e consolatorie, tutto ciò sta da troppi anni dettando legge nel mondo della musica internazionale. Non sarà possibile cambiare il corso della Storia, e probabilmente il mercato sarà ancora più invasivo nel prossimo futuro. Ma, a maggior ragione, fa piacere prendere atto della musica di Feldman, della sua soave cattiveria, del suo provocare e persino irritare con nonchalance. Della sua carica di verità e di poesia. Una pillola di saggezza, o forse di follia, contro il debordare del senso comune.

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