Biennale 2 | Vecchie glorie Usa battono gli juniores russi

Classici della contemporanea a Venezia con Feldman, Riley e Lucier

Recensione
classica
No, non è un titolo della Gazzetta dello Sport, ma l’esito di un paio di giornate di Biennale Musica che hanno accostato alcuni compositori americani "storici" alle nuove leve dalla Russia (che già lo scorso anno avevano fornito interessanti indicazioni) e anche dagli stessi Stati Uniti.

Non c’è stata quasi partita, per continuare con uno slang "sportivo": la forza dei lavori di Feldman, Riley e Lucier non ha purtroppo trovato nelle nuove composizioni una controparte in grado di suscitare altrettante attenzioni e volendo uscire dal tono un po’ agonistico del discorso abbiamo riscontrato in alcuni dei lavori presentati una certa incapacità – anche da parte di autori anagraficamente molto giovani – di essere in sintonia con la complessità del presente.

Spazio dunque alla retromania! Per usare un termine molto in voga oggi – sull’onda del libro di Simon Reynolds. Ma che meraviglia quando la retromania porta il nome di Morton Feldman, di cui il nostrano Quartetto Klimt ha proposto lunedì pomeriggio l’ultimo lavoro completato in vita, Piano, Violin, Viola, Cello (1987). Un pezzo bellissimo, con le consuete ipnotiche tessiture increspate da piccole idee che i quattro del Klimt hanno reso davvero con grande sensibilità, nonostante l’inevitabile tensione che una composizione come questa pone all’esecutore e gli immancabili elementi di disturbo come suonerie di cellulari, attacchi di bronchite fulminante, campane della vicina chiesa.

Altrettanta emozione la sera al Teatro Piccolo Arsenale, nel vedere l’ormai ultraottantenne Alvin Lucier sedere impassibile su una seggiolina sul palco e declamare la sua celebre I Am Sitting in a Room, registrata e riregistrata fino a che le caratteristiche dello spazio non rendono irriconoscibile il testo. Un lavoro di grande importanza, che ha aperto una serata che comprendeva altri tre lavori di Lucier (sempre interessante la ricerca sui battimenti) e altrettante composizioni di giovani autori americani, Perich, Friar e Mario Diaz de Leon, piuttosto deludenti nella loro costruzione complessiva, tra echi di jazz e un uso mai convincente dell’elettronica. Bravi come sempre gli strumentisti dell’Alter Ego Ensemble, ma ormai questa non è certo una novità, tanto più che lo scenario complessivo ci sembra sempre più evidenziare che alla bravura degli esecutori non corrisponda altrettanta bravura da parte di chi compone.



Grande attesa quindi per i giovani russi, nel programma del martedì pomeriggio, ma sin dalle prime note delle percussioni del pezzo di Nikolay Popov l’attesa non è stata ripagata. Sia il suo pezzo, che quello del giovanissimo Kirill Shirokov, hanno lasciato l’amaro in bocca alla platea, poveri non solo nelle idee, ma soprattutto nell’utilizzo delle idee stesse (il lavoro su un solo suono nel caso di Shirokov, ad esempio, che ci ricorda ancora una volta come in materia di "riduzionismi" vari le cose più interessanti e vivaci si muovano invece in ambito di improvvisazione o non accademico). Un po’ meglio l’inferno di sfregamenti di corde e soffi da pezzi di clarinetti e fagotto allestito da Alexander Khubeev, prima di un intervallo rigenerante, dell’innocuo lavoro di Yotam Haber e di un’esecuzione di In C di Terry Riley che si è avvalsa della colorata tavolozza ritmica dell’unione fra Alter Ego e Ex Novo Ensemble e che ha dimostrato violentemente a questi giovani compositori come un’idea formale o un processo debba essere supportato da una grande inventiva musicale per dare vita a un capolavoro.

Nello spazio delle Tese, in finale di serata, il percussionista Simone Beneventi si rinchiude in una vera e propria gabbia di percussioni fatta di gong, campanacci, metallofoni etc. per un one-man show (con contrappunto visivo attraverso la piattaforma multimediale IanniX) che parte dalla ricostruzione di Golfi d’ombra del compianto Fausto Romitelli. Beneventi è davvero bravissimo, anche se i pezzi scritti appositamente per questa occasione (da Trevisi, Grimaldi e Agostini, quest’ultimo il più interessante per il lavoro ritmico) rischiano di suonare un po’ uniformi, sia per la natura stessa del set – giustamente qualcuno dopo il concerto faceva notare nel foyer che in queste occasioni il set "è" la composizione – che per l’irrefrenabile spinta a usare tutti gli elementi a disposizione.

Il pezzo conclusivo di Hugues Dufourt, giocato su un numero minore di elementi, ci è piaciuto molto di più. Prepariamoci ora al rush finale… Che culmina sabato nel concerto di Anthony Braxton e nell’esecuzione notturna di For Bunita Marcus di Feldman. Ancora America… sarà mica un caso?

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