Il festival della crisi

La grande abbuffata delle rassegne e la fine della programmazione stagionale

Recensione
jazz
Mai stato un fan dei festival, anche se - per sana e ironica contraddizione - mi capita di dirigerne uno. In verità il bello del festival è che si concentrano una tale quantità di concerti, proposte e occasioni artistiche che è impossibile non gioirne. Ne sono lieti anche gli assessorati, gli sponsor, gli uffici stampa e gli artisti stessi, che grazie alla concentrazione di eventi godono di una visibilità insperata. Tutto bene dunque, anzi talmente bene che i festival fioriscono per ogni dove e in ogni momento dell’anno. A volerli seguire tutti - e ci limitiamo a quelli musicali, e jazzistici nello specifico - si starebbe sempre in giro per la penisola, anche se con minori occasioni nel sud. E qui cominciano i problemi: se vivo in un certo posto, magari in provincia, e non sono incline a spostarmi per il mondo, le occasioni di ascoltare la musica si diradano. In altre parole, il festival è un’occasione singola, un’abbuffata che si consuma in pochi giorni, lascia sazi per qualche settimana ma poi non ferma il risorgere della fame, destinata per altri undici mesi ad essere placata da briciole a fatica raccattate nella propria zona. Se vuoi abbuffarti ancora devi metterti in moto - con una mano al portafoglio - a caccia di altri festival.

Ecco, per me il problema dei festival è proprio questo: sono occasioni isolate che non creano un vero radicamento culturale, non realizzano una continuità di proposte esteticamente e criticamente stimolanti, ma si esauriscono nei fatidici “eventi” (una parola ormai impronunciabile) destinati a consumarsi rapidamente, senza reali ricadute culturali a lungo termine. Magari gli “eventi” ti regalano anche la grande occasione, ma non si trasformano mai in una trama di accadimenti culturali che elevano la qualità della vita delle persone. Immaginate di avere nella vostra media città di provincia un fantastico festival del cinema che dura una settimana e poi per il resto dell’anno vengono proiettati solo una decina di film. Lo accettereste? In musica ormai accade regolarmente. E quando arrivano i momenti di crisi le cose peggiorano: lo vediamo in questi mesi, con il rattrappirsi delle occasioni, l’uniformità di programmi legati ad un’unica agenzia (che così fa un gradito sconto) o chiamando solo quei dieci nomi “sicuri” che ti garantiscono la platea piena. E intanto intorno si crea il deserto: la vita culturale quotidiana si impoverisce, quel poco che prima c’era - già in sofferenza perché le risorse si concentrano sui festival - rapidamente sparisce, lasciando poche o punte opportunità ai giovani musicisti, ai rapporti tra scuole e istituzioni concertistiche, alla conoscenza e alla scoperta della musica di valore da parte del pubblico.
Posso esprimere un desiderio? Mi piacerebbe vedere meno festival e più stagioni concertistiche appassionanti, ricche di artisti prestigiosi, di giovani, sorprendenti talenti, nuove produzioni, legami con il territorio, cultura attiva. Vorrei insomma poter scegliere di andare ai concerti per tutto l’anno. Last but not least, un’attività diffusa consentirebbe perfino opportunità di lavoro più continue per chi lavora nel mondo dello spettacolo e nel suo indotto. La parola “festival”, mutuata dall’inglese, viene dal latino festivalis (die), "giorno di festa". Va bene: ma cosa facciamo nel resto della settimana?

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