La Langa arricchita (e Bob Dylan)

Collisioni 2012 si chiude, fra Patti Smith e "Blowin' in the Wind"

Recensione
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Confesso che la mia simpatia è sempre andata all’alt(r)a Langa: non quella bassa di Barolo e Grinzane, così ricca e un po’ snob, dove le cantine si chiamano “wine shop” e sembrano boutique di via Montenapoleone. L’altra, quella alta delle nocciole e delle tume – anche perché davvero più povera - mi è sempre parsa meno solerte nel cercare di rimuovere il suo passato di miseria (di “malora”, alla Fenoglio); è la sensazione che prende nel percorrere la via Maestra di Alba, tutta negozi di grandi firme; l’impressione di una Langa arricchita più che ricca veramente.
In questo mio personalissimo pensiero – del quale ai lettori può anche legittimamente non fregare nulla – si è incuneato Collisioni. Mi è saltato in mente, passeggiando per una affollatissima Barolo, vedendo un vecchio che fieramente agitava una copia de “L’Unità” dalla finestra.

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Collisioni è più di un festival, dice qualcuno, «un fatto di comunità» lo definisce il direttore artistico Filippo Taricco: vero, in un paesino (gli anni scorsi Novello, quest’anno Barolo) di settecento persone ospitarne quasi settantamila in quattro giorni non è un accidente passeggero, esige lunghe programmazioni e ampio coinvolgimento degli abitanti. Collisioni ha cominciato così ad insinuarsi nella Langa, includendo volontari giovani e meno giovani, intellettuali di provincia, non provincia, manovalanza più e meno specializzata. È cresciuto e, per la sua quarta edizione, si è regalato pure un paio di costosi eventi internazionali. Ma non di quelli soliti: fra gli altri, Don DeLillo a parlare di Cosmopolis, David Sedaris, Capossela, Moni Ovadia, Boy George e – infine – Patti Smith e Bob Dylan. Si può fare un festival di successo senza vendere l’anima, ed essere snob ogni tanto non è proprio un male. Chi c’entra meno, finisce per fare brutta figura: vedi Zucchero che litiga con il pubblico. L’anima, non venduta, di Collisioni non è solo di grandi nomi: il programma “fringe” che affolla le piazzette di Barolo offre un’ampia rassegna di quanto prodotto dal territorio soprattutto, fra compagnie teatrali e gruppi musicali: «You have a great festival» dice Patti Smith. E subito si corregge: «No no no: WE have a great festival». Si valorizzano il turismo e l’enogastronomia – ovviamente, e ci mancherebbe - ma anche le menti, la memoria degli scrittori così importante per la Langa, la sua gente. C’è il rischio di uscirne davvero arricchiti.

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Il festival è anche l’occasione per provare qualcosa di diverso: lo ha capito Capossela, che si è inventato un set di “Ballate” cavalcando lungo i sentieri meno battuti del suo repertorio, con una formazione (con cimbalom e violino) in parte diversa dalla sua abituale. Trovano spazio così un brano dedicato ai licenziati di Trenitalia, per i quali Capossela ha tenuto un concerto improvvisato qualche mese fa alla stazione Centrale di Milano (a pochi passi dal suo studio); brani popolari della “sua” Irpinia che si tramutano in cataloghi di vini; sonetti di Michelangelo musicati; un omaggio a Matteo Salvatore, uno a Dylan (“When the Ship Comes In”); alcuni nuovi classici come “La faccia della Terra” o “Billy Budd”, fino alla catarsi finale di “Il ballo di San Vito”. Un concerto anomalo, memorabile, purtroppo penalizzato da un suono non all’altezza.

Gioca più facile Patti Smith, che non si fa mancare i classici e propone alcuni brani nuovi dal recente – e tutt’altro che disprezzabile - Banga, fra cui una dedica ad Amy Winehouse. Brilla la title track, infilata prima dell’inevitabile bis di “People Have the Power” e dedicata «a tutti i cani» (Banga è il cane di Ponzio Pilato ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov). Com’è decadente Patti Smith, che alla soglia dei settant’anni continua a portare a spasso i suoi poeti (cui dedica un pezzo perché «soffrono per noi») con la leggerezza e la convinzione di un’adolescente, senza smuoversi di un passo dalla sua poetica.

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E si arriva a Dylan. L’imperativo, con Dylan, è sempre di tenere basse le aspettative: le canzoni, si sa, non si riescono a riconoscere stravolte come sono e lui, poi, non è mai stato questo gran compagnone. L’atmosfera, però, è speciale: un po’ perché sono i cinquant’anni di “Blowin’ in the Wind” (che non a caso è riapparsa in scaletta negli ultimi concerti del tour), un po’ perché vedersi Dylan in casa, a Barolo, che fa 700 abitanti... è un evento in sè. Si spera in fondo che il clima e l’occasione speciale servano a qualcosa, e regalino qualcosa di diverso. Qualcosa – non era lecito aspettarsi di più – in effetti accade. Per coincidenza (se credete che esistano le coincidenza), poche ore dopo Dylan annuncia attraverso il suo sito l’arrivo in settembre di un nuovo album, il suo trentacinquesimo in studio, quello del suo cinquantennale come recording artist; si chiamerà Tempest. E il set, nuovo disco o meno, rimane tra quelli da ricordare, suonato in maniera intensa e ricco di classici.
Negli ultimi anni Dylan ha dovuto rinunciare alla chitarra a vantaggio dell’organo elettrico, per problemi fisici. Nell’ultimo tour è comparso – per fortuna - anche un pianoforte a mezza coda, ora suo strumento preferito insieme all’armonica, su cui gigioneggia con tocco non proprio sopraffino ma comunque efficace. Parte così, dopo una “Leopard-Skin Pill-Box Hat” in versione blues elettrico, con il cantante all’organo, il lungo set (quasi due ore). Dylan attacca e subito sembra piantarsi, portando la sinistra al cuore: «Oddio, sta già male» dice qualcuno ma no, è tutto a posto: è solo un vezzo, e lo stop solo un tilt momentaneo. Quasi subito arrivano, fra le altre, “Things Have Changed” e delle poco riconoscibili “It’s All Over Now, Baby Blue” con un solo di armonica, una lunghissima “Tangled Up in Blue” e una spigolosa “A Hard Rain’s a-Gonna Fall”. La band è eccellente, anche troppo pulita, sempre un passo dietro al leader e pronta a seguirlo sui temi che abbozza al pianoforte. Il contrasto sporco/pulito fra Dylan e i suoi è in realtà affascinante, ed emerge al meglio quando il cantante imbraccia la chitarra elettrica e attacca “Simple Twist of Faith”, azzardando passaggi solistici à la Neil Young, per tasso tecnico e timbro, prontamente contrappuntati, ma discretamente, con timbro limpido, da Charlie Sexton e Stu Kimball alle chitarre. Seguono altri classici come “Highway 61 Revisited” e una magnifica, sontuosa “Ballad of a Thin Man”. Qui è là affiorano atmosfere alla Dire Straits (!), segno che ad andar con Mark Knopfler (recente compagno di tour) si impara a fare lo shuffle... Su “Like a Rolling Stone” l’impasto sonoro, pur senza organo, rimanda direttamente all’originale e il pubblico, tutto, può finalmente urlare di fronte all’imperterrito Dylan, cappello a falda larga e cravattino in cuoio, “How does it feeeeel”. Chiusura con “All Along the Watchtower”, e – unico bis, non trattabile – “Blowin’ in the Wind”, stravolta, ovviamente. Ma, intanto, l’ha fatta. A Barolo. E noi c’eravamo.

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