I jazzisti di Brema

Reportage dal JazzAhead! 2012: l'esplosione dei generi

Recensione
jazz
La "professionalità" dei professional dell'industria musicale non è in discussione, anche quando comprende aperitivi (molto) anticipati, porchette, vino e vari tipi di dolciumi burrosi. Nel caso di Jazzahead!, il tasso - tanto di professionalità quanto etilico - è tenuto alto da una netta maggioranza di professional nordici, che al vino (che spopola nelle fiere dell'area mediterranea) preferiscono vari colori di schnapps, fin da metà pomeriggio.

Jazzahead!, nella splendida Brema (dove i quattro musicanti della fiaba sono il must dei souvenir turistici) dal 19 al 22 aprile, è ormai l'appuntamento immancabile per chi si occupa di jazz: giornalisti, ma soprattutto booking, management ed etichette; con ampio spazio, naturalmente, all'area germanofona - si celebra, ad esempio, il ventennale della ACT – e ai ricchi scandinavi. Quest'anno, dopo alcuni "pionieri" negli scorsi anni, sono comparsi anche gli italiani: gli - ormai - immancabili pugliesi di Puglia Sounds e un manipolo di manager, festival e etichette raccolti sotto la bandiera (tricolore) di un "Italian umbrella": cooperazione nazionale per esserci, anche in un momento difficile per chi fa questo lavoro al di sotto delle Alpi.

Nello spazio della fiera - funzionale, ordinato, moderno con quella punta di kitsch tutta germanica - la giornata passa correndo da un appuntamento all'altro. Per la musica, si fa quel che si può: non si può ascoltare molto, qualcosa rimane impresso da poche, rapide note sentite tra un meeting e l'altro... Altro, semplicemente, lo si dimentica. Sarà che, mi ricorda salutandomi un noto musicologo jazz italiano, sono “un giornalista di world music”. “Che ci fai qui?”. “Ci si arrabatta!”. Con la crisi i generi che già erano incasinati si sono incasinati ancora di più, e tutti fanno un po’ tutto. Come i festival jazz, che programmano ormai indifferentemente la classica e (soprattutto in nord europa) la world music. O come i jazzisti, che - almeno a giudicare dal colpo d'occhio bremese - interpretano la loro musica sempre più come una “musica del mondo”, giocando con tradizioni e ribaltando cliché. È il caso dell’unico italiano in programma, il pugliese (via Puglia Sounds) Livio Minafra, chiamato a portare da vivo il suo recente lavoro per Enja, Surprise, in quartetto con Gaetano Partipilo (sax), Domenico Caliri (chitarra) e Maurizio Lampugnani (batteria). Minafra e i suoi ottimi compagni giocano con ritmi dispari, citano i balcani, gli Area (“Uzbek”, "Surprise"), il rock – soprattutto grazie alla ritmica energica di Lampugnani e alla chitarra elettrica di Caliri - e si concedono momenti altamente lirici (“Lacrime e stelle”), fino al finale in piano solo “preparato” con vari giocattoli e oggetti: musica creativa, viva, in continuo movimento per un talento in rapida crescita.



Fra i protagonisti c’è anche dell'Islanda. Paese i cui abitanti sono nell'ordine dei trecentomila, di cui – immaginiamo - buona parte musicisti, e ottimi musicisti. E fra questi, buona parte, immaginiamo, milita della Samúel Jón Samúelsson Big Band, formazione di diciotto elementi interprete di un afro-jazz-funk irresistibile. Piazzati sulle scale di accesso nel foyer di un teatro, i barbuti islandesi, vestiti come membri degli ZZ Top in vacanza a Zanzibar, suonano per quasi tre ore. I titoli delle canzoni, annunciati dal leader (e trombonista) rimandano ora all'attualità (la criticata partecipazione islandese alla guerra in Afghanistan) ora al - diciamo – “disimpegno” più totale, con una certa verve zappiana (memorabile la lunga sequenza finale intitolata, in traduzione anglo-germanica, qualcosa come "Pussy Scheisse", che non traduciamo ulteriormente). Se le influenze dichiarate sono le big band funk seventies, Fela Kuti, Sun Ra e dintorni, una certa islandesità emerge chiara dai molti soli, spesso talmente incongrui rispetto al groove generale da risultare perfettamente funzionali alla festosità del tutto: suoni da jazz nordico, soffiati, con note lunghe... (sotto un video per conoscerli... Non dal set Brema!) Un altro curioso e piacevole incontro sembra riportarci verso il cliché islandese: Tómas Einarsson, contrabbassista, è autore di un cd + dvd di solo contrabbasso, accoppiato con lo scorrere dell'acqua registrato in vari punti dell'isola nordica, “Perché suona diversamente” (il disco si chiama Strengur). Perfettamente islandese. Poi viene fuori che lo stesso contrabbassista si occupa di latin jazz (mi mette in mano quattro cd intitolati Reykjavik-Havana), tanto per riconfermare la globalità del genere. Grande è la confusione sotto il cielo di Brema.

L'incontro con il mondo africano (con l'area maliana in particolare) è l'ossatura del progetto del clarinettista di origine israeliana, ma con base a NY, Oran Etkin. Lo accompagnano un suonatore di balafon, un contrabbassista e un percussionista virtuoso di calabash. Lontanissima da ogni tentazione fusion, la musica di Atkin è un esaltante tentativo di jazz-afrobeat, in cui la tecnica del leader (che cita fra i suoi mentori Steve Lacy e Yusuf Lateef), formata fra america e radici klezmer, si integra perfettamente con il groove africano. Una profonda consapevolezza tanto delle specificità quanto delle differenze garantisce un interplay perfetto, caldo come un disco di Fela ascoltato sul vinile, con il balafon a macinare riff e il suono profondo del calabash, quasi dub, a tenere il piede ritmico.

Annotazioni sparse anche per Sebastian Gille, giovane sassofonista della label Pirouet dalla pronuncia personale e raffinata; o per il suono hard e distorto dello Spinifex quartet. O per il duo fra l’organettista Markku Lepistö e il contrabbassista Pekka Lehti, che fra citazioni di tango, folk, musica classica (lo splendido “Concerto diatonique”, firmato Lepistö) ricordano e riassumono le molte idee e i molti stili che attraversano la musica finlandese. I due anticipano, nella notte di sabato, sponsorizzata dalla Skoda e con concerti in decine di location in tutta la città, l’incontro fra il chitarrista Ulf Wakenius e la cantante di origine coreana Youn Sun Nah: jazz “da club”, ben suonato (soprattutto, la Nah si mostra interprete versatile e creativa nell’uso della voce) e che – conscio di essere “intrattenimento”, seppur di classe - non si prende troppo sul serio. Spiccano cover di Tom Waits (“Jockey Full of Bourbon”) e Metallica (“Enter Sandman”).

Difficile davvero orientarsi fra le molte proposte: rimane l’impressione di un grande caos vitale (fra i molti progetti scontati si nascondono, davvero, delle perle da scoprire) della scena contemporanea, che Brema – pur con il suo rigore germanico – non riesce neanche lontanamente ad ordinare, e che l'etichetta di "jazz" pare - fortunatamente - non sempre soddisfacente nel descrivere.

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