La grotta delle melodie perdute

Cave of Forgotten Dreams di Herzog è un emozionante discesa alla scoperta del nostro essere umani

Recensione
oltre
Presentato al Festival di Toronto nel 2010, il film Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog è uscito prima in sala e poi in dvd in alcuni paesi europei. Negli Stati Uniti, dove è stato prodotto, è in classifica tra i più documentari più visti in sala. In Italia, neanche a dirlo, nemmeno l’ombra, se non per qualche sporadica proiezione isolata: il sottoscritto lo ha visto a Firenze, al Festival dei Popoli, qualche settimana fa, ed è passato in questi giorni al Torino Film Festival .
Questo film è un capolavoro che può stendervi: di una bellezza a tratti insostenibile, emotivamente soverchiante, è un viaggio esclusivo e unico nella grotta di Chauvet, scoperta nel sud della Francia nel 1994, in cui sono state trovate le più antiche pitture murali della storia umana. Parliamo di opere risalenti a 32.000 anni fa, periodo aurignaziano, a cui sono sovrapposte altre pitture di circa 27.000 anni fa. Capolavori dell’arte visiva e testimonianza - di probabile natura rituale - del bisogno tutto umano di rielaborare il mondo reale in immagini (qui di varie specie di animali). Un’immersione alle origini dell’immagine e del cinema: infatti alcune di queste bellissime pitture simulano in modo impressionante il movimento delle zampe degli animali o l’arco ascendente del corno di un rinoceronte. Figure che il direttore della fotografia Peter Zeitlinger, spalleggiato dai produttori americani e contro l’iniziale parere di Herzog, ha insistito a girare in 3D, donando all’esperienza visiva una qualità tattile sconvolgente.
Nel viaggio alle origini dell’arte - un'arte moderna, sintesi di realismo e stilizzazione, melodia delle linee e armonie dei volumi - Herzog intervista antropologi, paleontologi, storici, donandoci una visione complessa e completa di quella civiltà umana. La distanza temporale non deve farci dimenticare che quegli artisti - di uno dei quali una studiosa è stata anche in grado di identificare la firma autoriale - erano esseri umani come noi, homini sapientes figli di quel big bang evolutivo che circa 40.000 anni fa aveva conosciuto un’esplosione senza precedenti di arte e tecnologia, peraltro già presenti nella nostra civiltà da almeno 80.000 anni.
Il film sfiora anche la musica. Certo, si ascolta la bellissima colonna sonora di Ernst Rejseger, ormai collaboratore abituale di Herzog, con la sua solenne, suggestiva profondità (ce ne siamo occupati sul numero di dicembre del "giornale della musica"). Ma c’è di più. Quegli umani frequentavano la grotta di Chauvet per celebrare riti legati a divinità animali: e certamente cantavano in coro (si veda su questi argomenti lo straordinario libro di Steven Mithen Il canto degli antenati, Codice) e forse suonavano strumenti a percussione e strumenti a fiato, magari quei flauti d’osso coevi scoperti anni fa a Geissenklösterle, in Germania. Nel film un antropologo, in un bosco, tiene in mano la copia di uno questi flauti. Ci spiega che il flauto è costruito per intonare scale pentatoniche. E già questo ci fa fare un balzo. Poi ci racconta che ha scoperto di poterci suonare "The Star Spangled Banner", l’inno nazionale americano. E lo suona davvero, lì, nel bosco, in modo impeccabile, con questo flauto di 32.000 anni fa: un paradossale, puro tocco herzoghiano.

E così siamo testimoni anche delle “origini” della musica, un’arte che sicuramente risale a decine di migliaia di anni prima (le prime tracce di pensiero simbolico umano complesso, che implicano l’uso del linguaggio e della musica, risalgono a più di 80.000 anni fa, come si evince dai resti artistici trovati a Blombos, in Sudafrica). Musica pentatonica, cantata da cori verosimilmente eterofonici e polifonici, che celebrarono l’unione mitologica di un toro e una donna, come lascia intuire un’impressionante stalattite dipinta a Chauvet. Un confronto tra cultura e natura che nella sconvolgente coda del film (che non riveliamo) diventa vertiginosa riflessione sul destino umano. E per chi volesse davvero toccare con mano il posto che la musica ha avuto nella nostra evoluzione, la cosa migliore è visitare la grande mostra su Homo sapiens in corso a Roma presso il palazzo delle Esposizioni: i flauti di Geissenklösterle sono lì, a un palmo dal naso, nel 3D naturale della nostra esperienza.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

oltre

Mario Brunello e Stefano Mancuso protagonisti di un denso dialogo tra l’armonia degli alberi e le radici della musica di Bach

oltre

Lo spettacolo Mondi possibili presentato dalla Fondazione Toscanini di Parma trasforma il tema dell’accessibilità in emozione

oltre

Passaggio italiano per il trio sloveno Širom, sempre imperdibile per gli amanti delle musiche avventurose