Medimex 2 | La fiera, il Mediterraneo e tutto il resto

La prima edizione si chiude con un sostanziale successo

Recensione
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Alle fiere si incontra un po’ di tutto. E se pensate che un’affluenza di soli professionali o quasi (così è stato al Medimex 2011) limiti le stranezze, non è così. Capita così nel giro di pochi minuti di parlare di filosofia con un greco che impazzisce per Remo Remotti, dell’esatto modo di cuocere la spigola con un giornalista, di altre cose che è bene non riferire con un ufficio stampa, e ancora altro. Oppure, fermi allo stand, di incassare le proteste di un tale che nel 1985 non avrebbe ricevuto rimborsi per un reso del "giornale della musica". E se gli faccio notare che, all’epoca, ancora non camminavo, risponde che è comunque rimasto soddisfatto, perché ha usato le copie («all’epoca il formato era bello grande») per foderare la gabbia del suo canarino nei successivi due anni.
Ci si augura che il molto materiale - cartaceo e non - scambiato nei tre giorni di fiera non finisca, catullianamente, come i celebri Annales di Volusio.

Forse è questo il futuro del disco (se ne è anche parlato in un convegno), ma di certo non del live: la preponderanza di professionali interessati al booking e alla promozione territoriale lo dimostra. Il Medimex si concentra sul Mediterraneo, e non mancano enti culturali e addetti ai lavori da tutte le sponde: Tunisia, Algeria, Provenza, Catalogna, Marocco, Grecia (in attesa del prossimo Womex a Salonicco). Esperienze più o meno simili a quella pugliese, che mostra di saper funzionare anche nel confronto con altri contesti internazionali, nonostante alcune cose da limare. A conti fatti, comunque, il Medimex n° 1 si rivela un successo: è mancato, è vero, il pubblico "esterno" (con disappunto di chi era in fiera per vendere prodotti e non per trattare affari). La scelta di collocare gli showcase serali dall’altro capo della città e di riservarli ai soli operatori ha avuto, come prevedibile risultato, concerti con poco pubblico (non sempre chi sta dieci ore in fiera ha voglia di saltare la cena) e musicisti con i musi lunghi. Il sabato, nella seconda sera di showcase, l’apertura dei cancelli ha comunque migliorato la situazione; la qualità dei convegni è stata alta, così come l'offerta musicale (anche se, si è lamentato qualche straniero, troppo focalizzata sulla Puglia).
Il risultato più importante è probabilmente quello di aver creato una fiera internazionale credibile e perfettamente organizzata (dalla logistica interna ai trasporti, con pratiche navette per gli alberghi), capace di rompere radicalmente con il modello Mei, difficilmente appetibile per investitori stranieri (era più un mercato, dalle magliette alle chitarre, che una fiera di professionali...). L’unico freno allo sviluppo del Medimex, rispetto ai suoi competitor esteri, potrebbe essere la natura dei fondi in gioco e i noti problemi italiani fund raising: lavorando con finanziamenti europei gestiti a livello regionale, il rischio di ritrovarsi con i rubinetti chiusi è sempre dietro l’angolo. Per intanto, l’edizione dell’anno prossimo sembrerebbe essere già programmata…

Degli operatori e delle proposte musicali presenti, moltissimi erano naturalmente pugliesi. A livello musicale, il Medimex ha quindi restituito l’immagine di una regione musicalmente vivace, dando spazio a realtà che in altre regioni difficilmente potrebbero ambire a palchi di tale prestigio. Nella pattuglia degli showcase pugliesi, hanno – prevedibilmente – spopolato i salentini, fra conferme, scoperte e punti interrogativi da sciogliere.
Fra le prime, Mascarimirì (di cui ci siamo lungamente occupati sulle pagine del “giornale della musica”) ribadisce il suo ruolo di potenziale testa d’ariete per la musica “tradinnovativa” del sud Italia. Affermare – come fa anche dal vivo Claudio “Cavallo”, leader e ideologo – che questa musica - sporca, tirata, gonfiata da gorgoglianti campioni di basso e lontanissima da filologie di sorta – sia la musica “tradizionale”, è una presa di posizione politica che deve essere ascoltata. E che può contare su un livello di “tiro” dal vivo che le varrebbe una collocazione (forse migliore…) anche in circuiti altri da quello world. Senza entrare in impossibili confronti estetici, ma guardando con le orecchie ben aperte cosa gira nel mondo oggi, qual è la differenza fra Omar Souleyman, che suona al Sónar di Barcellona, e Mascarimirì, che suona al Medimex?

Si conferma anche Canzoniere Grecanico Salentino con un progetto che, sebbene sia riuscito solo in parte, ne testimonia la volontà di spingere un passo oltre la sua ricerca musicale, senza accontentarsi del portare avanti una (pur felicissima) tradizione di riproposta. L’incontro con l’albanese Fanfara Tirana (con in più ospite il violoncello di Redi Hasa) paga pegno alle poche prove: solo una replica, estiva, al festival La Ghironda prima di questa uscita al Medimex. Il problema, accertata l’abilità dei musicisti, è solo di incastri. Le due tradizioni in ballo saranno anche vicine, ma le scansioni ritmiche non si adattano da sole: per infilare un piolo tondo in un buco quadrato, insomma, non basta battere forte… E dalla somma di due gruppi che fanno del groove il loro marchio di fabbrica è lecito aspettarsi quella somma di groove. Ma il progetto è da sviluppare, e i pezzi di cui gli arrangiamenti sono stati scritti o “pensati” con attenzione già si staccano dal resto del repertorio, facendo intravedere un potenziale altissimo.

Fra le altre proposte pugliesi, Antonio Castrignanò è interprete di una pizzica acustica ben orchestrata da ottimi musicisti, che gli varrà una fortunata carriera (niente di nuovo sotto il sole saletino, comunque). Sul versante reggae, un’altra promessa è la vocalist Mama Marjas, ottima presenza scenica e ottima voce. Il limite, in versione sound system, sono i riddim non particolarmente originali, ma la classe non manca.

Passando ai palchi internazionali, deludono gli attesissimi Transglobal Underground con Natacha Atlas: la loro è pura “world music vista dagli inglesi”, che gioca più su cliché e personaggi che non su di un efficace incontro di musiche diverse fra loro. Formule del genere, se funzionavano dieci-vent'anni fa, mostrano oggi la corda: tante percussioni (batteria, tabla, congas) che non cercano poliritmie ma si appiattiscono sulla scansione cassa-rullante, melismi arabi, uno spruzzo di elettronica anch’essa datata e un uso poco più che coloristico del sitar non bastano (o non bastano più) per fare musica interessante.

Incanta invece Savina Yannatou con il suo ensemble acustico Primavera en Salonico: repertorio da tutto il Mediterraneo (compreso un brano in sardo) che trova il suo punto di incontro non in una fusion mediterranea di qualche tipo, ma unicamente nella personalità vocale della cantante. Basta la grana della voce, che non si limita a riprendere canzoni ma incorpora, smonta e rimonta modalità di canto lontanissime fra loro, a dare coerenza ad un percorso altrimenti difficilmente razionalizzabile se non attraverso l’ideologia di una presunta “mediterraneità” di comodo. Categoria in uso e ormai sdoganata, ma che è sempre bene sia problematizzata, tanto dagli artisti quanto dagli operatori. Le occasioni di riflessione, per fortuna, oggi non mancano.

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