La leggerezza di Geremia

Un ricordo dell'improvvisatore, scomparso qualche giorno fa a ottantuno anni

Recensione
jazz
Ho visto l'ultima volta Renato Geremia, che ci ha lasciati qualche giorno fa, nel 2008, quando venne all'Auditorium Demetrio Stratos di Radio Popolare per registrare un album in duo con Tony Rusconi: cioè due terzi dell'Omci, il trio (Rusconi alle percussioni e Mauro Periotto al contrabbasso) che nella seconda metà degli anni Settanta fu una delle punte del free jazz italiano. In quel periodo turbolento e vitale, Geremia, classe 1930, aveva avuto lo slancio di mettersi in gioco con musicisti di una generazione nata quando, nel secondo dopoguerra, lui già si avviava sulla strada della professione. Come musicista mi era familiare dai tempi dell'Omci; come persona ho avuto occasione di conoscerlo parecchio più avanti, negli anni Novanta, frequentando l'Italian Instabile Orchestra, sorta di all stars nata dall'idea di una rappresentativa delle diverse generazioni del jazz italiano creativo e non conformista, compagine che giustamente aveva voluto Renato nelle proprie file. Alla considerazione per un talento di polistrumentista-improvvisatore fuori dell'ordinario, capace di esprimersi con padronanza tecnica, straordinaria poesia e splendido senso del suono su un'ampia gamma di strumenti (sax tenore, sax alto, clarinetto, flauto, violino, pianoforte), e di interloquire da pari a pari anche con capiscuola dell'improvvisazione europea come Misha Mengelberg, si aggiunse allora per me la simpatia per un uomo di estrema sensibilità, di grande gentilezza e di modestia addirittura eccessiva. Tratti umani che, così come il legame con la stagione del free, non erano certo i requisiti ideali per stare sotto i riflettori sulla scena del jazz italiano. Per fortuna dopo la stagione degli anni Settanta c'è stato chi, come l'Italian Instabile Orchestra (di cui Geremia ha fatto parte fino al 2003) e nei loro progetti personali alcuni dei suoi membri, o, anche nell'ultimo scorcio della vita di Renato, Tony Rusconi, hanno contribuito a risarcirlo almeno in parte della sottoutilizzazione delle sue doti: creando delle occasioni per registrare con lui in duo, Rusconi ha avuto il merito di offrire a Geremia uno spazio aperto per mettere in conclusione ancora estesamente in luce le sue qualità di polistrumentista. Per Italian Instabile Orchestra. Jazz come ricerca collettiva negli anni '90, un libro uscito nel '97, avevo raccolto le testimonianze dei musicisti della compagine sul loro “percorso”, condensandole in piccoli profili in prima persona. Da Renato mi ero fatto raccontare durante una delle trasferte in pullman dell'orchestra all'estero in cui ero stato imbarcato. Di quell'ultimo incontro a Radio Popolare mi è rimasto impresso che Geremia approfittò dell'occasione per ribadire che era stato molto contento di come avevo reso quello che mi aveva detto, e che lo fece con un tono di vera riconoscenza: che un musicista come lui, quasi ottantenne, si sentisse in dovere di ringraziarmi ancora per una cosa che risaliva a oltre dieci anni prima, mi fece molto effetto e mi rimane come significativo della sua personalità e amabilità. Vorrei allora ricordare Renato con le sue parole di quel mini-autoritratto in cui si era ritrovato:

«Passando davanti a un negozio di musica in una strada di Venezia, per combinazione più di una volta mi accadde di sentirne uscire la musica di un altista, che mi colpì molto. Chiesi al proprietario chi fosse, e mi rispose che era un certo Charlie Parker. Sempre per fatalità, in quel periodo capitò che mi regalassero un vecchio sassofono. Così a quindici anni cominciai a fare bebop che portavo ancora i pantaloni corti. Avevo già cominciato con la musica classica, e più tardi, verso i vent'anni, al conservatorio, Bruno Maderna, che sapeva che suonavo il sax, mi coinvolse nella registrazione della musica di un film che aveva composto: Maderna amava il jazz, lo sentiva in sintonia con quello che faceva, gli piaceva la diversità del jazz dall'accademismo. Forse perchè sono dei Gemelli, ma esplorare cose nuove è qualcosa che ho sempre sentito come una necessità, come qualcosa di profetico, e continuo ad avvertirlo quasi come un destino anche alla mia età. Così per me è stato naturale entrare in contatto con la dodecafonia, e poi ho trovato istintivamente una continuità fra il bebop e il free degli anni Settanta. Per conto mio, a casa, mi ingegnavo già a fare delle sperimentazioni, e sentivo un desiderio di esplodere che però non potevo soddisfare, perché non avevo le persone giuste che occorrono per fare certe cose innovative: suonavo standard, una cosa che mi piace moltissimo, ma avevo bisogno di fare dell'altro, sentivo un'evoluzione che doveva arrivare. Del resto a volte mi succede di suonare con dei musicisti che non conosco, però è come se li avessi già conosciuti, come se ci fosse un contatto medianico. Poi finalmente nel '74 ho avuto l'occasione della musica improvvisata con l'Omci. All'inizio, quando nell'Instabile suonavo solo il violino, mi sentivo a disagio, perché ho l'esigenza di usare timbri diversi, ma adesso nell'orchestra suono anche il sax, il clarinetto... Mi pesa portarmi dietro tanta roba, ma se poi mi manca la sonorità di uno dei miei strumenti è una vera sofferenza.”
Che i tuoi strumenti, Renato, ti siano adesso leggeri.

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