Altri dialoghi parziali

Incontri incompleti ad AngelicA, ma Roscoe Mitchell si impone

Recensione
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Roscoe Mitchell comincia col flauto, volando basso. Del resto stanno tutti guadagnando tempo: si studiano facendo melina a centro campo, senza uscire dai limiti di un “repertorio” improvvisativo buono per tutte le stagioni, che non impegna. In effetti, che senso ha costringere a prendersi le misure in una situazione totalmente estemporanea quatro musicisti ormai settuagenari che rappresentano tre identità musicali spiccatamente diverse e ampiamente consolidate? Mitchell e Smith alfieri del post-free chicagoano emerso nella seconda metà degli anni sessanta – Mitchell noto soprattutto come membro dell’Art Ensemble of Chicago – Pauline Oliveros teorica del “deep listening”, John Tilbury rinomato interprete di pagine dell’avanguardia, per esempio di Cage, e protagonista di avventure come la Scratch Orchestra di Cornelius Cardew. Non avrebbe più consistenza culturale proporre per esempio insieme Mitchell e Smith, due che sono in sintonia da più di quarant’anni, magari lasciando a loro la scelta di qualche altro partner ? Non è velleitario pensare che mettendo insieme – nel 2011, non nel 1970 ! – quattro figure storiche in un assortimento inedito ma anche artificiale possa venirne fuori un qualche valore aggiunto ? E infatti, a ben vedere, il valore aggiunto non viene fuori dal’incontro dei quattro, ma con ogni evidenza, almeno nel primo dei due set, dall’individuale impronta che Mitchell dà ad una contingenza improvvisativa che altrimenti di senso vero ne avrebbe ben poco. Per nulla appariscente fin che sta al flauto, quando poi passa al sax alto Mitchell viene via via fuori come il centro dell’evenienza improvvisativa: non già perché assuma il comando delle operazioni, che anzi sembra non curarsi granché di quello che avviene intorno a lui, come assorto in un suo rimuginare musicale, intento in un suo pensiero. I suoi non sono assoli nell’accezione convenzionale, e non sono “jazzistici”: brevi note, o note prolungate, e una fantastica produzione di suoni virtuosistica e originale. Il discorso di Mitchell sembra anzi disarticolato, insensato, stolido: ma con quella capacità di seguire una logica propria, fuori dalla norma, totalmente autonoma, con quella determinazione, con quel “rigore” che fa il fascino del disturbato psichico che parla da solo per strada con una modalità e determinazione che a noi fa problema ma che nella sua forza e nella sua indipendenza è per noi inattingibile, e dunque attira la nostra attenzione con uno straordinario magnetismo. Anche Leo Smith, che pure si ritaglia un suo protagonismo, è più convenzionale, più jazzistico. Oliveros e Tilbury finiscono per essere relegati in una funzione di contorno, ancillare: in una situazione di musica improvvisata non è bellissimo che sia così, ma almeno avviene per una buona causa.

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