Il tempo contemporaneo

Affinità e divergenze fra le arti visive e la musica nel mondo di oggi

Recensione
classica
La lettura del bel libro di David Stubbs Fear of Music (Why people get Rothko but don’t get Stockhausen), mi permette di riprendere l’argomento della crisi di pubblico della musica contemporanea. All’estrema fase di questo ciclo storico in cui la musica (classica, e soprattutto quella contemporanea) ha perso qualunque capacità di trasformarsi in denaro, diventa difficile sia per le istituzioni che per l’imprenditoria attribuire valore alla musica. La musica non produce moneta; le stagioni dei teatri costano cifre enormi alla collettività, i dischi non si vendono più, il mercato degli strumenti musicali è in flessione, come pure quello delle apparecchiature elettroniche audio. Insomma, nell’era della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, la musica soffre più delle arti visive. Un quadro conserva la sua aura, mentre un’opera musicale, di per sé immateriale, mantiene sì un contenuto spirituale ma perde per le masse quell’appeal che invece le arti visive rinforzano costantemente. La Tate Modern, tempio dell’avanguardia contemporanea, è la meta più ambita dai turisti che visitano Londra. Impossibile immaginare qualcosa di analogo in campo musicale. E certo, nella definizione dell’aura che rende prezioso un dipinto o un manufatto artistico, la consapevolezza dell’enorme valore economico che il mercato gli attribuisce non pare un dato indifferente.
Ecco perché masse enormi di persone sono disposte a fare lunghe file sotto la pioggia per visitare una mostra dedicata ai suprematisti russi (riconoscendo probabilmente prima di tutto l’incredibile valutazione commerciale di tali opere), mentre nessuno si mobilita per assistere all’ultima creazione di Helmut Lachenmann (che non produce alcun plusvalore). David Stubbs fornisce, per chi non ne fosse convinto, una bella quantità di esempi a conferma di questa tesi e introduce poi un altro argomento, più sottile, anche se apparentemente banale, ma altrettanto forte: la musica richiede tempo, la musica è tempo.
Quanto tempo serve per attraversare le sale di un museo che espone i monocromi di Rothko? Lo decidiamo noi stessi, un minuto può bastare. Mentre i 27 minuti e 19 di secondi di “Schwankungen am Rand” di Lachenmann possono risultare un territorio inesplorato dove avventurarsi alla ricerca di mondi sonori, ma più probabilmente un intollerabile abisso di perdita di senso. Il tempo, proprio quello che ci manca, o forse, come dice l’ineffabile Ghezzi, «non è il tempo a mancarci, siamo noi che manchiamo al tempo».

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