Un’ombra sulla montagna

Il nuovo album del californiano DJ Shadow, a vent'anni dall’insuperabile capolavoro d’esordio

Articolo
pop

DJ Shadow
The Mountain Will Fall
Mass Appeal

Il guaio a esordire in grande stile è che di lì in avanti ci si deve misurare con quel precedente, rischiando di rimanerne in qualche modo ostaggi. Così è capitato al californiano Josh Davis, fra pochi giorni quarantaquattrenne, il cui album di debutto con lo pseudonimo DJ Shadow risale esattamente a venti anni or sono. Endtroducin’ era un formidabile mosaico costituito esclusivamente di frammenti carpiti da dischi altrui: una sorta di manifesto del postmoderno su scala musicale. Nulla di quanto fatto da lui in seguito – altri quattro album, questo incluso – si è avvicinato a quell’opera monumentale.



Eppure The Mountain Will Fall è un lavoro dignitosissimo, a tratti brillante come la “fintroduzione” del 1996. In avvio, ad esempio, l’episodio che dà titolo all’intera raccolta, aperto – strano ma vero – da un aleggiare di tastiere tratto da “Prima alba” del nostro Dario Baldan Bembo (da Crescendo, 1975), evolve in maniera convincente dalla vaporosa ambient iniziale verso un ritmo solenne e marziale, reso però sdrucciolevole dall’Ombra, fino a sfociare in arpeggi di sintetizzatore dal gusto progressive. E subito dopo, ecco il pezzo forte: in “Nobody Speak” l’animoso rap dei Run The Jewels – con tanto di schizzo di veleno all’indirizzo di Donald Trump – scorre su un groove mozzafiato di basso e batteria. Qui tuttavia i fiati sono “veri”, come del resto la tromba del britannico Matthew Halsall in “Ashes to Oceans”, la cui soffice armonia confligge con l’arzigogolata ingegnerizzazione dei ritmi.



Questa la novità: c’è molta musica “suonata” rispetto al passato, ancorché attraverso il computer per mezzo del software Ableton. Accade pure in “Bergschrund”, brano nel quale spicca il contributo del neoclassico tedesco Nils Frahm. L’alternanza fra chiaro (l’astrattismo esoterico di “Pitter Patter”) e scuro (l’atmosfera cupa e spettrale di “Depth Charge”, quasi in zona doom metal) definisce il perimetro entro cui il disco si muove, non sempre con disinvoltura (“Mambo” e “California” sono sterili esercizi di concettosità) ma esprimendo comunque l’intenzione – meritevole – di sfidare l’ascoltatore.

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