Tolosa riscopre Meyerbeer

Intervista al regista Stefano Vizioli

Articolo
classica

Al Théâtre du Capitôle di Tolosa chiude la stagione prima della pausa estiva un’opera di raro ascolto, la poderosa partitura di "Le Prophète” di Meyerbeer. Grand Opéra (preludio e cinque atti) su libretto di Eugène Scribe e Emile Dechamps, che vide la prima rappresentazione il 16 aprile 1849 a la Salle Le Peletier dell’Opéra de Paris, debutta il 23 giugno a Tolosa. La trama affronta un tema storico-religioso del XVI secolo: l’auto-proclamazione di re della città di Münster da parte del anabattista Giovanni di Leida. La regia è affidata a Stefano Vizioli, lo abbiamo intervistato.

Le Prophète a Tolosa. In terra catara, terra di pogrom medievali...

«Più che Toulouse è la Francia di Meyerbeer che esercita un incondizionato fascino a chi si avvicini a una partitura cosi complessa e legata a fatti storici violenti e brutali. Lo spartito propone pagine profondamente angosciose per chi le deve realizzare scenicamente e teatralmente: il corale che contraddistingue i tre protagonisti “ad nos, ad salutarem…” dal sapore vagamente gregoriano, ha insito nelle sue spire malefiche tutta la tortuosità di una volontà coercitiva. La storia si ripete, ed in fondo la drammaturgia di “Le Prophète” parla di manipolazione su menti fragili, pronte ad obbedire ad un disegno perverso e politico nel nome di una fede abbracciata passivamente e senza l’aiuto di alcun strumento critico, o del beneficio del dubbio».

Nel cinquecentenario del luteranesimo, un'opera che tratta di un'altra eresia, quella degli anabattisti. Intento celebrativo o casualità?

«Entrambe le cose, il titolo mi fu proposto due anni fa dopo il successo a Toulouse dei "Due Foscari”. È abitudine di questo teatro francese di chiudere la stagione con un titolo “forte” che veda un grande sforzo produttivo ed esecutivo, per cui quest’anno è caduto sul Grand- opéra meyerbeeriano, ma sicuramente non è una coincidenza. La storia degli anabattisti è a suo modo molto moderna e condivisibile anche sul piano etico e morale, ma l’iniziale dottrina ha subìto con il suo ultimo “re profeta” Jean de Leyda, figura affascinantissima e tremenda, una tale involuzione da ridursi ad un’ espressione di fanatismo collettivo autodistruttivo e suicida. Jean resta una figura diabolicamente attraente, ovviamente parlo del personaggio storico e non della visione addolcita ed edulcorata di Scribe. Lo hanno individuato magnificamente Azio Corghi e Josè Saramago nella splendida opera “Divara”, che tratta lo stesso argomento di Meyerbeer con una maggiore consapevolezza “storica” degli eventi cosi come realmente sono andati».

Qual è la sua chiave di lettura?

«Sarebbe stato facilissimo ambientare l’opera ai giorni d’oggi, ispirandosi a certi canali televisivi per vedere alcuni santoni urlanti che strumentalizzano orde di fanatici e usano il mezzo mediatico per lanciare anatemi o assoluzioni, poi in basso a destra vedi anche un codice IBAN a cui spedire soldi se vuoi avere una relazione con gli enti supremi più sbrigativa ed immediata. Ma sono rimasto anche colpito da alcune analogie storiche del periodo di Meyerbeer, denso di novità culturali e politiche, ed abbiamo favorito con lo scenografo e costumista Alessandro Ciammarughi una lettura più “ottocentesca”, proponendo immagini e tonalità che si ritrovano nella pittura di Beraud e Daumier, ma con riferimenti precedenti anche a Caillot, o ipermoderni come Chapman. La vera sfida è il lavoro sui singoli personaggi, coacervi di tali contraddizioni da diventare quasi paradigmatici. Un esempio fra tutti si evince nel gigantesco complesso edipico di Jean con sua madre Fidès. Ho subito detto ai protagonisti che l’incoerenza è alla base dell’interpretazione del proprio personaggio, pensiamo ad una Fidès saggia donna pratica che regge una osteria ben avviata e con un figlio che la ama in modo incondizionato, ha perfino una futura nuora che pure vive in totale adorazione verso la suocera, cosa diventa Fidès nel corso dell’opera? Una mendicante, una fanatica religiosa, una madre possessiva e castrante, una “Azucena pompier”. Quante Fidès abbiamo in uno stesso carattere? E cosi Jean è quel figlio modello, visionario e mistico, o un attore consumato e cinico assetato di potere per risolvere sue vendette personali? È in buona fede o recita quando ci parla delle sue visioni? Quanto usa il proprio potere fascinatorio per intrappolare una mandria credulona che ha bisogno di un proprio profeta per giustificare ogni bassezza “nel nome di dio”? Ho voluto giocare su questa ambiguità per non dare una risposta ma far si che il pubblico stesso scelga chi sia Jean, un mostro o una vittima di un potere più grande di lui. L’unica coerente con sé stessa fino in fondo è la povera eroina amata dal protagonista, Berthe, al quale però Meyerbeer non concede nemmeno un duetto con il suo bello, e che in questo mondo di pazzi non può che scegliere la via della libertà suicidandosi. Inutile dire quanto importante e fondamentale sia la presenza del coro e quanto il rapporto singolo-massa sia alla base dell’intera storia. In questo qui a Toulouse ho la benedizione di un coro vivace, attento, curioso, coraggioso, pronto a mettersi in gioco. Insomma il coro che ogni regista sogna».

"Le Prophète”, un grand opéra in 5 atti, parla ancora al pubblico di oggi?

«Dovunque si parli del fanatismo religioso è bene essere sempre all’erta e scoprire l’attualità dei messaggi insiti anche nel Prophète di Meyerbeer».

Sono stati operati dei tagli?

«Qualche piccolo taglio è stato effettuato, ma fondamentalmente l’opera è proposta quasi integralmente. Bisogna amarne le incongruenze drammaturgiche e a volte ingenue, trattando ogni atto come una storia a sé:- queste incongruenze assurgono al massimo livello nel terzo atto dove un furibondo coro di fanatici assetati di sangue, il cui testo potrebbe tranquillamente essere un proclama dell’Isis, si placa davanti a 15 minuti di delizioso balletto di “pattinatori” che sul lago ghiacciato volteggiano per divertire questa banda di bruti assassini. Con il coreografo Pigi Vanelli abbiamo pensato quindi a delle rivoluzionarie un po’ matte che nel saccheggio hanno trovato una cassa piena di tutù e da orrende sanguinarie un po’ tricoteuses si divertono a fare le Taglioni, con tutù strappati e grondanti di sangue e con passi che ricordano la levità di un Petipa violentato. Come se non bastasse sempre nel terzo atto, forse per un omaggio al adoratissimo Rossini, Meyerbeer scrive un terzetto buffo fra uomini, definendolo cosi in partitura TRIO BUFFO, quindi che coerenza possiamo trovare? Meglio trattare ogni cosa come un microcosmo a sé stante. Quando ho letto questa pagina cosiddetta comica che s’inscrive tra visioni di morte e allucinazioni collettive ho preferito non affidarmi a una forzata coerenza, ma amare proprio l’incongruenza della situazione, se deve essere trio buffo che sia trattato alla Rossini a questo punto. Poi per non farci mancare nulla, alla fine scoppia il castello con tutti dentro, uccidendo buoni e cattivi in un rogo catartico dove, ovviamente, si riuniscono gli amanti in un canto glorioso finale, e ovviamente gli amanti in questione sono mamma e figlio».

Meyerbeer, un indigesto polpettone musicale senza valore come lo considerava Wagner oppure un valente figlio del suo tempo, nel quale retorica e prolissità erano apprezzati?

«È sicuramente figlio del suo tempo, si attiene perfettamente alle regole del Grand Opéra: trama storica, grande dispendio di mezzi, cast stellare, presenza del balletto ed effetti scenografici, fino alle novità “sportive” dei pattini a rotelle che nessuno conosceva prima. Al giorno d’oggi bisogna arrivare a cogliere la spettacolarità ma senza proporla come unica chiave di lettura, non è un caso che anche qui come negli "Ugonotti” e nel “Robert le Diablo” siamo sempre di fronte ad una crisi di valori e di fazioni religiose, dove fanatismo e passione, solitudine e angoscia interiore, dubbi e colpi di scena si alternano in sapienti alchimie, e in questo Meyerbeer è maestro, essendo il re del Grand Opera per eccellenza. Tutti hanno rubato da lui, Verdi per primo nella Auto da Fe del “Don Carlos” ha attinto a piene mani dalla scena dell’incoronazione, Wagner, Liszt, si trovano passaggi che riecheggiano nel Samson et Dalila di Saint-Saëns, Gomes pure nel suo Guarany fa scoppiare un castello con tutti dentro, e ovviamente, in modo dissacrante e ironico, Offenbach non aspettava altro che un Meyerbeer per le sue adorabili geniali marachelle musicali».

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