Ogni anno, i giorni di passaggio tra inverno e primavera segnano l’inizio del festival dell’Opéra National de Lyon, che costituisce la punta di diamante dell’attività del teatro della seconda città di Francia, giudicato da un referendum il miglior teatro d’opera del mondo e il cui direttore principale è Daniele Rustioni. Il titolo dell’edizione 2019 del festival è Vite e destini, che può apparire alquanto vago, ma a ben vedere si attaglia perfettamente alle tre opere in programma, che hanno per protagonisti tre personaggi la cui vita è fortemente segnata dal destino, ovvero i protagonisti de L’Incantatrice di Čajkovskij, di Dido and Aeneas di Purcell e del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi.
Le ultime due non sono più delle rarità (ma verranno presentate in edizioni molto particolari) mentre l’opera di Čajkovski è poco nota anche in Russia e praticamente sconosciuta fuori dalla Russia: questa sarà la prima esecuzione in Francia, in Italia è stata rappresentata una sola volta, al San Carlo di Napoli nel 2017, e anche negli altri paesi europei se ne ricordano pochissime edizioni.
A Lione sarà sul podio il direttore principale dell’Opéra, Daniele Rustioni, che l’anno scorso aveva diretto al festival tre opere in tre giorni consecutivi, ma quest’anno si limiterà ad una sola.
Lo stesso Rustioni ce ne ha spiegato i motivi in una conversazione durante una pausa tra le prove.
«L’Incantatrice (o La Maliarda, come si trova scritto sui vecchi testi italiani, mentre il titolo originale russo è Charodéyka) è un’opera difficilissima e forse è questo il motivo per cui viene rappresentata così raramente. È scritta in modo veramente difficile per l’orchestra, con tonalità con sette diesis o con sei bemolle. Un esempio di queste difficoltà è la spaventosa tempesta alla fine dell’opera, che è molto convulsa e molto ritmica e richiede che tutte le sezioni dell’orchestra suonino tantissime note in pochissimo tempo con la massima precisione: c’è una densità di scrittura veramente impressionante».
«L’Incantatrice è un’opera difficilissima. Ce ne è abbastanza da scoraggiare i teatri dal metterla in programma».
«È molto difficile anche il finale del primo atto, quando il diacono è costretto dal principe Nikita a danzare insieme ai buffoni. Insomma per ottenere un’esecuzione di buon livello ci vuole un’ottima orchestra, che deve comunque avere tutto il tempo necessario per provare e riprovare. E non basta, perché ci vogliono anche dei bravissimi cantanti. Ce ne è abbastanza da scoraggiare i teatri dal metterla in programma».
In genere la scrittura vocale di Čajkovskij è piuttosto tradizionale, ma mi pare di capire che non sia così in quest’opera, che appartiene alla sua piena maturità, essendo stata composta poco prima delle sue ultime due opere La Dama di picche e Iolanta.
«Come dicevo, è una scrittura vocale veramente difficile, che mette a dura prova i cantanti, soprattutto nei duetti. Questa è un’opera di duetti. Ci sono naturalmente anche delle arie, ma sono poche e le definirei piuttosto degli ariosi. Kuma, l’incantatrice, ne ha due molto belli e struggenti, nel primo e nel quarto atto. Al tenore e agli altri protagonisti ne è concesso uno a testa, e piuttosto breve. Hanno invece un grande spazio i duetti, i quartetti e anche i recitativi: a questo proposito, devo dire che per me è un gran fortuna conoscere un po’ il russo, avendo lavorato due anni a San Pietroburgo, perché altrimenti mi sarebbe stato impossibile accompagnare i recitativi di Čajkovskij, che non vanno eseguiti in modo metronomico ma assecondando l’espressione delle parole. Anche quest’assenza di momenti solistici di forte impatto ha ostacolato la popolarità di quest’opera in un’epoca – la fine dell’Ottocento – in cui l’attesa era tutta per la grande aria».
Dunque in quest’opera più che i singoli protagonisti prendono rilievo le scene d’insieme?
«Nel finale del primo atto c’è perfino un decimino a cappella, più il coro: mi ricorda un po’ il quattordicimino del Viaggio a Reims. I pezzi d’insieme sono molti, perché sono tanti i personaggi, ben quindici. Molti di loro hanno ruoli importanti ma brevi ed escono di scena prima ancora che lo spettatore abbia il tempo di affezionarcisi. Ne è un esempio lo stregone, che ha una parte molto bella e interessante, ma compare solo nel quarto atto, brevemente, e subito sparisce. C’è invece un po’ più spazio per i personaggi principali nel secondo e nel terzo atto, che hanno un carattere più lirico».
E tra i protagonisti dell’Incantatrice c’è anche la natura.
«È vero. All’inizio, Čajkovskij descrive la natura russa incontaminata e lo scorrere placido del fiume. L’opera si chiude invece con una tremenda tempesta. Questi diversi aspetti della natura rappresentano la contrapposizione tra le forze del bene e del male. È significativo che nell’arioso di Kuma ritorni il tema iniziale della natura, per far intendere che la protagonista è una creatura naturale, selvaggia ma dall’animo puro, quindi un personaggio positivo e non una strega come viene considerata dagli altri. Čajkovskij era molto affezionato a Kuma e ha affermato che, tra tutti i personaggi delle sue opere, era quello cui egli si sentiva personalmente più vicino. La ha anche definita una sorella russa di Carmen. Io ho notato una precisa somiglianza anche tra Kuma e Micaela, esattamente tra l’arioso del personaggio di Čajkovskij nel quarto atto e l’aria del personaggio di Bizet».
Quali sono le differenze tra L’incantatrice e le opere di Čajkovskij più note al pubblico, Evgenij Onegin e Dama di picche?
«L’essere ambientata nella Russia semibarbarica del quindicesimo secolo invece che nell’alta società russa dell’Ottocento, ha come conseguenza che nell’ Incantatrice hanno maggiore importanza sia il paesaggio naturale, incontaminato e selvaggio, sia l’elemento soprannaturale, magico e irrazionale. Anche il comportamento dei personaggi segue regole diverse. Kuma non è una romantica donna ottocentesca, sa di essere giovane e bella e non si ritrae, giocando le sue carte per sedurre Jurij, ma senza bisogno di pozioni magiche, perché è una maliarda e non un’incantatrice e la magia non ha un ruolo importante nell’opera. In questo senso la vecchia traduzione italiana del titolo era forse più esatta».
La messa in scena è stata affidata all’ucraino Andriy Zholdak, che è stato definito “un pittore impietoso delle passioni e dei danni del desiderio come strumento del destino”. È uno dei registi più originali di oggi e quindi da lui ci si aspetta una lettura molto personale di quest’opera. Per quel che riguarda la musica vi siete presi delle libertà o siete rimasti fedeli al dettato originale?
«Sarà un’esecuzione fedelissima e completissima. Čajkovskij è un compositore fantastico, incredibile, un genio, quindi ci tengo particolarmente ad eseguire tutto, senza rinunciare a una sola nota. Questo si traduce in circa tre ore e un quarto di musica, più l’intervallo. Quanto alla regia, non posso prendermi io la responsabilità di descriverla, ognuno darà il suo giudizio. Ma obiettivamente posso dire che la scenografia è molto interessante e anche molto complessa, tanto da impegnare al massimo le maestranze del teatro. Consiste di quattro grandi piattaforme, che restano sempre visibili e e si muovono continuamente, vengono avanti, si spostano lateralmente: rappresentano quattro distinti spazi, la locanda, la chiesa, una ricca sala e un ambiente che connette gli altri tre».
Guardiamo ora al futuro: quali i suoi prossimi impegni con l’Opéra di Lione?
«Quest’estate faremo ad Aix-en-Provence una nuova edizione Tosca, che finora non è mai stata rappresentata in quel festival. Apriremo la prossima stagione a Lione con Guillaume Tell in francese con la regia di Tobias Kratzer. Poi eseguiremo per il terzo anno consecutivo un’opera del primo Verdi, che porteremo anche a Parigi: quest’anno, dopo Attila e Nabucco, sarà la volta di Ernani. Nella stagione 2020-21 torneremo alla musica russa con uno spettacolo stravinskiano, che includerà Le Rossignol e Renard, e con Sadko di Rimskij-Korsakov; inoltre Falstaff».
Vogliamo parlare anche della sua attività in campo sinfonico? Dal 2014 è Direttore principale dell’Orchestra della Toscana e dallo scorso autunno è anche Chief Conductor della Ulster Orchestra di Belfast. Quali sono i suoi programmi con queste orchestre?
«Ho dei progetti che definirei faraonici con quest’orchestra, che è l’orchestra nazionale dell’Irlanda del Nord: incide per Chandos, tutti gli anni partecipa ai Proms della BBC, ha una serie di concerti trasmessi live dalla BBC, fa spesso tournée nazionali e internazionali. La sala di Belfast è relativamente piccola, con un’acustica incredibile, ed ha anche uno splendido organo. Proprio per utilizzare quest’organo inaugurerò la prossima stagione con la Sinfonia n. 3 di Saint-Saëns. Poi eseguiremo l’integrale delle Sinfonie di Bruckner in tre anni, il ciclo completo della musica orchestrale di Rachmaninov, molto Bach sia in originale che in trascrizione e naturalmente il normale repertorio, come Haydn, Mozart, Mendelssohn. Farò anche tanta musica francese e russa. E voglio eseguire la Sinfonia n. 2 di Casella, ci tengo molto».
E il suo rapporto con l’Orchestra della Toscana proseguirà?
«Ho un bellissimo rapporto con quell’orchestra, che dura ormai da nove anni, prima come direttore ospite, poi come direttore principale, e non voglio interromperlo. Proprio dopo la prima della Incantatrice andremo in tournée in Germania e torneremo in Germania anche nella prossima stagione. Abbiamo fatto tantissime cose insieme: ho diretto tutte le sinfonie di Beethoven, di Mendelssohn e di Schumann, ho partecipato a Play It!, che è una bellissima idea di Giorgio Battistelli dedicata alla musica contemporanea italiana. È un’orchestra di piccole dimensioni ma ho insistito molto per ampliarla con musicisti aggiunti per poterci confrontare anche con musica che richiede grandi organici. Inizierò la prossima stagione stupendo ancora una volta con una composizione monumentale per un grande organico: la Sinfonia n. 4 di Bruckner. Proprio nei giorni scorsi l’ho sentita diretta meravigliosamente da Bernard Haitink e ho pianto tutto il tempo».
«Il mio contratto come direttore principale a Firenze scadrà nel giugno del 2020, ma stiamo cercando il modo perché io continui il mio impegno con un altro incarico, perché credo in questo orchestra».
«Il mio contratto come direttore principale a Firenze scadrà nel giugno del 2020, ma stiamo cercando il modo perché io continui il mio impegno con un altro incarico, perché credo in questo orchestra, ci ho investito molto, si è creato un feeling particolare con i musicisti e con il pubblico, che non voglio vada perduto. L’ultimo concerto come direttore principale a Firenze voglio farlo con un mio amico, che stimo moltissimo e sta facendo un carrierone: è Francesco Piemontesi ed eseguiremo il Concerto n. 2 per pianoforte di Brahms. Poi, per il 2021, si sta aprendo una posizione molto importante all’estero, ma di questo ancora non posso dir nulla».