Rock da camera

Il ritorno dei Radiohead fra languore malinconico e marketing digitale

Articolo

Radiohead
A Moon Shaped Pool
XL

Da alcuni anni – esattamente nove, epoca In Rainbows – le strategie di marketing anticipano e quasi sopraffanno la musica dei Radiohead. Nella circostanza: l’oscuramento volontario della propria presenza nel web, i volantini a casa dei fan, i teaser in rete di “Burn the Witch” e “Daydreaming”, quest’ultimo con video d’autore firmato da Paul Thomas Anderson, regista associato da tempo a Colin Greenwood, chitarrista della band inglese (ne ha parlato qui il blog di Jacopo Tomatis).



Segno che il mondo è cambiato e nulla sarà più com’era. La stessa disposizione degli 11 episodi inclusi, ordinati in sequenza alfabetica, risponde a una logica non discografica. Né sono previsti mutamenti a metà giugno, quando verrà resa disponibile l’edizione “fisica”, in cd o doppio vinile, con tiratura speciale in cofanetto dotata di bonus di vario genere (due brani extra, un volume di corredo grafico e persino un frammento di nastro magnetico proveniente dall’archivio del gruppo) al prezzo di 60 sterline.

Registrato insieme al produttore di fiducia Nigel Godrich nello studio La Fabrique, in Provenza, A Moon Shaped Pool arriva a cinque anni dal non brillantissimo The King of Limbs ed è il nono album ufficiale – esclusi live, compilation e altri formati spuri – nell’arco di una carriera avviata nel 1993 da Pablo Honey. Risale a quel periodo, addirittura, “True Love Waits”, che ne costituisce l’epilogo: canzone ricorrente dal vivo, nel 2001 immortalata nell’ep I Might Be Wrong, benché in versione differente dall’attuale (qui scorre sulle note del pianoforte invece della chitarra).



Non è l’unica in qualche modo già di pubblico dominio: “Ful Stop” – forse la migliore del lotto, grazie al groove incalzante e alla solare apertura strumentale di chiusura – e “Identikit” comparivano occasionalmente nel repertorio dei concerti del 2012, mentre a rivelare in anteprima “Present Tense” – altro gioiello, tipo una vaga bossa nova in punta di plettro – era stato Thom Yorke da solista nel 2009, al festival britannico Latitude. E sempre lui, nel dicembre scorso, a Parigi, durante un evento ai margini della conferenza mondiale sul clima, aveva proposto gli allora inediti “Desert Island Disk” e “Silent Spring”, divenuto adesso “The Numbers”. A dare coerenza a materiali dall’eterogenea estrazione cronologica è l’architettura sonora, eloquente fin dagli accordi iniziali: “Burn the Witch” nasce dallo slancio impresso da una sezione d’archi. Sono quelli della London Contemporary Orchestra diretta da Hugh Brunt, il cui afflato cameristico pervade buona parte dell’opera: riflesso evidente dei lavori “colti” (con Krzysztof Penderecki, ad esempio) o cinematografici (vedi al paragrafo Anderson) di Greenwood. Le chitarre stanno in secondo piano, per di più sovente acustiche. Yorke viceversa ci mette anzitutto la voce, al solito dolente. È un uomo di 47 anni, nel mezzo del cammin della sua vita, come conferma borbottando “half of my life” al contrario in coda a “Daydreaming”. Esibisce uno sguardo angustiato – e a tratti si direbbe rassegnato – sullo stato delle cose: “Oltre il punto di non ritorno/ed è troppo tardi, il danno è fatto”, nel pezzo appena citato. Oppure: “Avete davvero rovinato tutto” (“Ful Stop”). E infine: “Mentre il mio mondo andrà a rotoli/io ballerò, darò di matto” (“Present Tense”). È con questo senso di languore e malinconia che si riaffiora dall’immersione nella “piscina a forma di luna”.