Plettri in fuga

Beppe Gambetta racconta il nuovo disco con Tony McManus, e riflette su arte, musica e bellezza

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Round Trip, andata e ritorno. Da dove? Dall'Europa, probabilmente. Perché ambedue i musicisti che firmano il disco (appena uscito per Borealis Records) dal vecchio continente arrivano, e i casi della vita e dell'arte li hanno portati ad essere, come racconta Beppe Gambetta con sapida ironia, "plettri in fuga".

Gambetta, maestro nell'arte del flatpicking da cinque anni ha scelto come base operativa e di vita la quiete di Stockton, New Jersey. L'altro è Tony McManus, un signore scozzese considerato il miglior chitarrista celtico vivente che da Glasgow è finito nella terra di origine di Neil Young, l'Ontario, Canada. Round Trip è un disco di duetti chitarristico in cui entra tutto, tranne la noia di certi dischi di virtuosi tutti note, velocità ed emozioni zero.

Ci trovate un duetto sul "Valzer dell'amore perduto", un De André che non ricorda quasi nessuno, ricordi di folk ligure e lombardo e sardo, medley di incantate melodie gaeliche ed altro. Una conversazione con Gambetta stesso ha permesso di mettere a fuoco la storia di questo disco. A partire da quale posto emotivo occupi, nella sua discografia personale, Round Trip.

«La sfida che sento di più in ogni lavoro è quella di creare qualcosa di nuovo che continui il mio percorso ed il mio stile, mantenendo al contempo alto l'impatto dell'emozione artistica e poetica. Sparso in diverse parti del mondo esiste un gruppo di fan appassionati che continua a seguirmi ad ogni uscita, perché sente questa emozione e conosce la passione profonda con cui mi muovo. È a loro che penso quando lavoro ad un nuovo progetto. Realizzare Round Trip è stato un lavoro appassionante, perché con Tony abbiamo unito due estetiche diverse, ma con affinità profonde in un accostamento che non avevo mai approfondito in precedenza. Quando si fa un lavoro di contaminazione si uniscono elementi normalmente lontani tra loro, lungo una strada che sta al confine tra nuova bellezza o cattivo gusto. Sta a te guidare e fare in modo che 1 più 1 faccia 3, e questo è esattamente quello che abbiamo provato a fare seguendo esempi illuminati del passato, ad esempio Riccardo Tesi e Patrick Vaillant nel progetto Veranda, Grey Larsen e Andrè Marchand nel progetto The Orange Tree. Abbiamo scelto le melodie adatte da entrambe le nostre culture.
«A questo proposito - continua Gambetta - sono felice di avere inserito anche una melodia ligure della nostra tradizione campanaria. Le campane tirate a corda dallo scomparso campanaro Angelo Ferrari non risuonano più nella valle, ma le note continuano il loro percorso in angoli diversi del mondo con due chitarre, di cui una costruita dalla famosa liutaia canadese Linda Manzer a 36 corde (ideata in origine per Pat Metheny). E c'è qualche abbellimento celtico...».

Gli americani sono stupiti di vedere un italiano che suona una "loro" musica, o sono così abituati a vedere di tutto che non ci fanno caso? Trovano qualche "italian flavor"?
«Gli americani (anche se sono molto stretti nel concedere i visti di lavoro) per cultura sono abituati allo straniero che suona musica "loro" o anche diversa. Quello che secondo me cercano più di altri è la buona qualità della proposta musicale. Naturalmente il tutto genera una concorrenza di altissimo livello, ma artisticamente ti spinge sempre a dare il massimo possibile. Negli Usa non suono esclusivamente musica di matrice americana, ma anche quando interpreto la loro musica l'impronta italiana c'è e si sente, il sole del mediterraneo che addolcisce il suono splende sempre».

Se potessi tornare indietro a quando partisti per la prima volta negli anni Ottanta, con due valigioni, un primordiale e imponente registratore Dat e la chitarra per andare a cercare i maestri e incidere duetti con loro, poi pubblicati in Dialogs, cosa rifaresti uguale e cosa eviteresti di fare?
«Il progetto di registrare un disco itinerante andando a visitare con un registratore portatile i grandi maestri della chitarra americana si è rivelato pazzo ma geniale e vincente, anche in tutte le fasi della sua autoproduzione, e non cambierei molto di quello che ho fatto. Se potessi tornare indietro magari aggiungerei un progetto simile anche in Sud America. Cambierei invece in momenti successivi qualche collaboratore, manager o etichetta discografica, ma ripeterei con incoscienza la stessa avventura musicale.

Un musicista inglese ripete spesso che "as you get older, you get slower", invecchiando si tende a rallentare. Nel tuo caso, in una musica (o meglio, una tecnica strumentale fatta di tante tecniche) dove conta anche la velocità, ritieni che il bagaglio di anni e di esperienza faccia guadagnare di più nel "tocco", a compensare (ammesso e non concesso che sia così) la parte di velocità perduta?
«Le mie dita non hanno ancora raggiunto il momento in cui devono rallentare, anche se i tempi di riscaldamento sono fisiologicamente più lunghi e le tendiniti più frequenti. Vista la mia età il momento in cui dovrò rallentare non è lontano, ed è una fase che non mi spaventa, in cui mi dedicherò alla bellezza più pura, come ho sentito fare in maniera emozionante da alcuni anziani maestri. In questi anni le esperienze, la ricerca e la conoscenza di tecniche popolari di entrambe le sponde dell'Oceano sono arrivate a una sintesi e alla raffinatezza di alcuni suoni e tecniche che sono completamente miei, e che sento profondamente espressivi. Questa è sicuramente la via che mi chiama per il futuro e per la quale vorrei avere molto più tempo per approfondire».

Invece per quanto riguarda l'insegnamento è cambiato qualcosa nei numeri e nella partecipazione, nell'interesse, nel modo della musica smaterializzata?
«Il percorso di chi si occupa di musica acustica ispirata alle tradizioni produce naturalmente un enorme numero di informazioni artistiche e chi lo intraprende ha il dovere morale di tramandarle, di educare le nuove generazioni ad un tipo di bellezza profonda e poco riconosciuta. Questo è quello che anch'io ho sempre voluto fare fin dall'inizio della carriera, e non è stato semplice perché i due momenti di performer on the road e di educatore sono molto diversi. Per scendere dal palco e insegnare bisogna girare l'interruttore dell'ego e cambiare l'approccio comunicativo, e tutto ciò richiede una bella concentrazione. Per condensare in un unico lavoro una grossa parte delle mie esperienze artistiche ho scritto per la casa editrice Carisch il Trattato di Chitarra Flatpicking, tradotto anche in inglese, dove ho provato a trasmettere l'amore per la musica e il concetto di trasversalità nella bellezza estetica delle forme popolari. Tornando alla domanda, insegnare musica popolare al giorno d'oggi è una sfida sempre più grande perché l'estetica che insegni è più distante dalla realtà. Inoltre trovo che spesso gli studenti purtroppo non siano mossi dalla ricerca della bellezza, ma dalla vanità. Il sogno di diventare una star inseguito nei reality, nei talent show e nei film è una chimera ridicola, specie nella nostra musica. Però riesce a motivare e far studiare un numero immenso di persone, nonché a far produrre un numero straordinario di nuovi cd amatoriali, utili fondamentalmente come sottobicchieri. Di questo soffrono molto i veri nuovi talenti e i nuovi geni che sono tanti e sempre più bravi, ma fanno fatica a emergere perché rimangono sommersi e soffocati dalla sovra produzione che hanno attorno. Il numero di persone che si dedicano ad imparare è sicuramente comunque cresciuto e si sono anche moltiplicate scuole e workshop di ogni tipo, affinati i mezzi didattici e tecniche per insegnare e imparare. I nuovi talenti posseggono tecnica sopraffina, molto più avanzata di quella della mia generazione».

Trovi ancora tempo e modo per "stupirti" di qualche bella musica che non conoscevi?
«Per chi continua attivamente a produrre musica indipendente la resistenza al declino del mondo musicale attuale richiede un impegno sempre più assiduo su tutti i fronti per continuare a lavorare, bisogna inventare continuamente nuove proposte e generare nuovi sbocchi lavorativi. Questo riduce di molto il tempo per occuparsi di ricerca, di studio, di altre forme di arte che in ogni caso, anche se ti sfiorano, ti possono illuminare il cammino. Il tempo per stupirsi di fronte alla bellezza diventa sempre meno, ma questo resta sempre un pensiero costante ed è quello che cerco in ogni piccolo momento libero possibile. L'esigenza di rimanere bambino, stupirsi e sognare è sempre davanti a te ed è il motore fondamentale che consente di andare avanti».

La Acoustic Night che curi ogni anno al Teatro della Corte di Genova rappresenta un unicum e non solo in Italia. Se dovessi anche in questo caso tirare un bilancio di oltre quindici anni di concerti in un grosso teatro rischiati sulla tua pelle, come risponderesti?
«L'Acoustic Night è il progetto italiano che negli anni mi ha dato più soddisfazione, la prova che il pubblico italiano ha una grande capacità di farsi coinvolgere nella bellezza del mondo musicale indipendente, e che può entusiasmarsi per forme musicali diverse da quelle proposte dai media. Dell'intensità di questo spettacolo si è accorta anche Rai Radio 3 che da cinque anni trasmette l'evento in diretta, raccogliendo commenti bellissimi da ascoltatori sparsi in tutta Italia. È anche la prova che in Italia è possibile produrre grandi spettacoli senza doversi necessariamente basare su sponsor o su sovvenzioni pubbliche. Un grande merito di questo successo è nel lavoro di produzione di mia moglie Federica Calvino Prina, che non si occupa solo della complicata parte organizzativa, ma dà un contributo fondamentale e intelligente alla scelte artistiche e alla definizione dei temi delle Acoustic Night. La grande soddisfazione che viene dall'Acoustic Night è anche quella di raccogliere un grande successo, rispetto e affetto nella mia Genova, città che riesce a stupire e dimostrare energie inaspettate».

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