L'orchestra nella foresta

Torna la Classica Orchestra Afrobeat di Marco Zanotti, con Njamy Sitson

Articolo
world

Classica Orchestra Afrobeat Polyphonie Sidecar

Racconta Marco Zanotti, cuore pulsante su mille percussioni e mente altrettanto mobile del progetto Polyphonie che questo terzo lavoro della Classica Orchestra Afrobeat ha, come tante fatiche musicali, un’origine per buona parte extramusicale: per la precisione nelle pagine di Song From The Forest, un testo dell’etnomusicologo statunitense Louis Sarno, che da alcuni anni ha fatto la scelta radicale di spostarsi a vivere tra i pigmei Ba-Benjellé della Repubblica Centroafricana (testo che ha originato anche un documentario assai premiato).

Come sanno molti appassionati di musiche dal mondo, quella pigmea è una delle più antiche e originali trame polifoniche che sia dato conoscere. Pigmea è anche la tecnica di canto yodel, che tendiamo “naturalmente” ad associare ai tedeschi delle regioni più meridionali, o addirittura a certa non ben specificata “country music” a stelle e strisce da cartolina. Dunque: controllo di larghe masse vocali, con un flusso di incastri ondeggiante e sinuoso, che sembra quasi avvolgere chi l’ascolta. Con un effetto non dissimile, in fondo, fa notare Zanotti, da quello che impregna di emozione corpi e menti di chi ascolta un coro gregoriano nelle volte di una chiesa, senza riuscire a identificare con la vista la fonte del suono e del gran volo di armonici: esperienza, come dicono gli addetti ai lavori, “acusmatica”.

Qui, a rappresentare la comunità pigmea, Zanotti ha chiamato Njamy Sitson, cresciuto ai bordi della grande foresta del Camerun, specialista di tecniche vocali tradizionali, e – quello che è più interessante e significativo per noi – da una decina d’anni ospite della Germania: per amore della musica barocca, per amore della filosofia tedesca. Non siamo solo noi occidentali a scoprire “l’altro”. Con queste premesse, non è difficile immaginare cosa attendersi da un disco costruito come una sapiente tessitura di percussioni africane di tutti i tipi e le dimensioni, un piccolo organico da camera decisamente “occidentale”, con tanto di fagotto, viola, violino, oboe, corno, clarinetti, clavicembalo, e un coro a rinforzo. Le melodie sgorgano da morbidi nodi percussivi, le voci si alternano, gli strumenti si inseguono con gioia monella spesso lavorando in contrappunto.

L’effetto è al contempo felicemente frastornante e convincente. E quando Zanotti sottolinea che questo è un lavoro “collettivo” esattamente come i precedenti capitoli, ad esempio quello pur dedicato a un’individualità fortissima come Fela Kuti, è difficile dargli torto.

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

world

Fela. Il mio dio vivente è il documentario di Daniele Vicari che racconta il rapporto fra Fela Kuti e il videoartista romano Michele Avantario

world

Pierpaolo De Sanctis ci racconta la compilation Africamore, che raccoglie il sogno afro degli anni Settanta italiani

world

Intervista a Melaku Belay, danzatore, coreografo e fondatore del centro culturale Fendika