Ignazio Macchiarella e Emilio Tamburini
Le voci ritrovate. Canti e narrazioni di prigionieri italiani della Grande Guerra negli archivi sonori di Berlino
Udine, Nota 2018, 302 pp., €37 (con 4 cd)
È raro che un lavoro di ricerca – un libro scientifico, concepito e condotto con metodo e rigore – riesca a toccare così nel profondo il lettore. È un dato, quello emotivo, con il quale chi affronta questo Le voci ritrovate, firmato a quattro mani da Ignazio Macchiarella (per la parte etnomusicologica) e da Emilio Tamburini (per quella storico-culturale) deve fare i conti fin dalle prime pagine e dai primi ascolti (sono 3 i cd audio allegati, più uno di materiale d’archivio). Ma è un dato, in qualche modo, previsto, e che non fa che rinforzare le argomentazioni del libro: le voci oggetto della ricerca, semplicemente, ci colpiscono attraverso il tempo, e lo fanno in quanto voci, nella loro unicità e nel loro evocare una presenza, un corpo di qualcuno che è stato e che non è più.
La storia del “ritrovamento” è anch’essa, naturalmente, parte del fascino che accompagna questa ricerca. Nel 1918 un gruppo di studiosi tedeschi parte per una campagna di documentazione linguistico-musicale. La circostanza è – da un punto di vista scientifico – irripetibile: i ricercatori della Regia Commissione Fonografica Prussiana possono contare, oltre che su un finanziamento diretto del Kaiser Guglielmo II, su un gran numero di prigionieri di guerra rinchiusi nei lager del Paese, ampio campione delle molte lingue dei soldati coinvolti nella Grande guerra.
Fra questi ci sono gli italiani. Ne vengono registrati 42, provenienti da Calabria, Campania, Emilia, Friuli, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Puglia, Romagna, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto e da una comunità arbëreshë del Molise. Tutti cantano nella loro lingua madre (che è ovviamente il dialetto). Cantano varie cose: canzoni napoletane, romanesche, storie cantate, canzoni a ballo… Tutti (salvo uno) hanno nome e cognome, ed è un dato altrettanto eccezionale, se si pensa quanto a lungo il “popolo” sia stato anonimo nella ricerca folklorica. In quattro casi intonano anche dei brani a più voci (fra cui un’invettiva contro il generale Cadorna, che ci ricorda spietatamente il contesto storico in cui queste registrazioni sono avvenute).
Sono queste le voci – passate attraverso traslochi, smembramenti di fondi e una guerra mondiale – più antiche di italiani “qualunque” che siamo in grado di ascoltare oggi (dunque escludendo i tenori e gli uomini politici).
Di questa ricerca fondamentale, non solo per l’etnomusicologia ma per la comprensione della storia culturale nazionale e non, abbiamo chiacchierato con Ignazio Macchiarella.
Mi piacerebbe cominciare chiedendoti come sei venuto materialmente a conoscenza di queste incisioni, e se hai realizzato subito l’importanza della scoperta. Al di là delle considerazioni “scientifiche”, immagino sia stato anche emozionante, essere il primo a riascoltare qualcosa di registrato un secolo fa…
«Ho avuto la fortuna di studiare questi materiali grazie a un invito, nel 2012, della collega Susanne Ziegler del Phonogrammarchiv di Berlino. Il primissimo impatto è stato indimenticabile: Susanne, nel suo ufficio, mi porge una scatola con una dozzina di cilindri di cera, alcuni dei quali, ancora sigillati con la cera lacca, recavano nell’etichetta la scritta Sardinischer. Mi dice di sceglierne uno e di aprirlo rompendo il sigillo e di inserire il cilindro di cera nel fonografo di Carl Stumpf (proprio il suo personale, ancora perfettamente in uso!). Il tecnico fa partire l’apparecchio e dopo circa un (interminabile) minuto viene fuori la voce di un uomo (che poi avrei scoperto trattarsi di Giuseppe Loddo di Fonni, Sardegna) che intonava: E Cando sa campana trista/ det a totu annuntziare / de chi deo mortu sia (quando la campana triste /annuncerà a tutti che io sono morto…), ossia un lamento funebre di un soldato sardo catturato a Caporetto (avrei scoperto dopo) e chiuso nel campo di prigionia di Limburg. Una voce registrata nel 1918 che per la prima volta veniva fuori dai solchi di cera in cui era stata fissata e che avevamo il privilegio, per primi, di poter ri-ascoltare a distanza di circa un secolo: una emozione profondissima, “pelle d’oca” anche solamente a ripensarci…».
Qual è invece – dal tuo punto di vista di etnomusicologo – la portata di questo ritrovamento?
«Una portata ampia, che cerco di definire nel mio saggio. Comunque l’aspetto di maggior rilievo dal mio punto di vista è senz’altro la possibilità di ascoltare e analizzare il suono della voce di alcune persone vissute un secolo fa: un suono che ha una forza espressiva assoluta, più di mille parole, che è capace di rivelare molto più di quanto si è scritto finora sul canto al di fuori dell’Accademia nel primo Novecento, di lasciar immaginare la complessità e ricchezza della qualità dell’espressività vocale del passato... È ad esempio l’emergere concreto di colori vocali singolari, la manifestazione della normalità del cantare usando rapporti intervallari altri rispetto al nostro sistema temperato, il palesarsi di processi di circolazione di canti e narrazioni secondo canali poco conosciuti, al di là delle nostre (artificiose!) distinzioni fra colto e popolare, scritto e orale…».
Nel libro definisci le registrazioni come «una piccola breccia nel muro di un silenzio secolare», le più antiche registrazioni di italiani «normali». Pensi ragionevolmente ci sia altro da scoprire, o quello del Phonogrammarchiv è un caso unico e irripetibile?
«Come è noto in Italia non abbiamo avuto nulla di lontanamente paragonabile alle campagne di registrazione di Bartók, Kodály in Ungheria ed est Europa, di Percy Grainger in Gran Bretagna e Australia e così via. I nostri etnografi/demologi sono stati refrattari all’impiego del registratore nella attività di ricerca sul campo. Eppure durante primo congresso di etnografia italiana del 1911 si discusse dell’uso del fonografo: ma per quanto ne sappiamo il primo italiano a registrare dei “cantori popolari” con intenti di documentazione è stato il sardo Gavino Gabriel (fondatore della Discoteca di stato) nel 1922-1924. Abbiamo anche qualche flebile traccia di registrazioni di “uomini e donne” (al di là dei cantanti professionisti) di Napoli, connesse con la nascita della prima casa discografica italiana di Raffaele Esposito, nel 1901, ma si tratta di registrazioni potremmo dire casuali senza l’intenzionalità dello “sguardo sonoro” dello studioso. In effetti, quella delle registrazioni su cilindro di cera è una mancanza significativa – che è anche alla base del ritardo con cui l’etnomusicologia si è sviluppata in Italia rispetto al resto d’Europa (una questione sulla quale ho qualche ipotesi di cui magari potremmo parlare un’altra volta). Sì, il primo Novecento italiano è stato proprio “muto” – e dobbiamo dire grazie al gruppetto di studiosi prussiani per questo preziosissimo corpus. Per il resto, a quanto ne sappiamo al momento, potrebbe esserci poco altro. Ma … mai escludere sorprese. Del resto il corpus qui in questione, di cui comunque si conosceva l’esistenza, pareva essere andato perduto per sempre…».
Fra i casi di cui ti sei occupato, riporti dell’incontro con la figlia di uno dei prigionieri, proprio quel Giuseppe Loddo che hai voluto la fortuna di ascoltare per primo. Mi dici qualcosa su quell’incontro? Siete riusciti a tracciare altri parenti?
«L’incontro con la signora Maria Antonia Loddo è stato bellissimo! Lei sulle prime non ha riconosciuto la voce del padre perché quando lei era nata Giuseppe Loddo aveva quasi sessant’anni e le registrazioni restituivano la voce di un trentenne! Poi quando ha visto i fogli scritti, ha riconosciuto la grafia del padre. Abbiamo trovato altri parenti in Sardegna e fuori. In particolare Emilio Tamburini, il giovane (e bravissimo) studioso che ha lavorato con me al corpus, ha avviato presso l’Institut für kulturwissenschaft della Humboldt Universität di Berlino un ampio progetto per la realizzazione di un documentario con testimonianze relative a tutti i prigionieri. Emilio ha già incontrato vari figli e nipoti e molte delle testimonianze raccolte sono realmente interessanti».
Nel libro si accenna a futuri sviluppi della ricerca su questi materiali. Che altro possono rivelare, queste voci? Che cosa stai/state facendo?
«Accanto all’approfondimento storico (a opera di Emilio) e musicologico (il mio contributo), l’intento del volume è anche di carattere documentario. Abbiamo scelto (d’accordo anche con l’editore Valter Colle, che ha sostenuto con passione il nostro lavoro fin dall’inizio) di pubblicare letteralmente tutto il corpus, comprese ad esempio alcune tracce di pochi secondi, verosimilmente degli errori nelle registrazioni. In questo modo abbiamo voluto mettere tutto quanto in nostro possesso a disposizione della comunità degli studiosi, di linguisti, dialettologi, antropologi, storici e specialisti di storia militare e così via. Speriamo dunque di aver presto altre letture e interpretazioni del corpus da altri punti di vista, magari in prospettiva interdisciplinare».
«Da parte nostra, a Udine, (in collaborazione fra l’Università friulana e quella di Cagliari, e il supporto di Nota edizioni), lo scorso novembre abbiamo realizzato un incontro di studi interdisciplinari che ha offerto notevoli spunti per l’approfondimento dell’analisi del corpus sonoro. Su questa base io e Emilio stiamo curando un nuovo volume interdisciplinare, sempre per Nota edizioni, con interventi di linguisti, dialettologi, storici e antropologi, oltre a ulteriori approfondimenti musicologici».
Una curiosità, infine. Negli ultimi anni l’idea dell’“archivio” è stata molto sfruttata dai musicisti per nuovi progetti artistici, di “ricomposizione” e rielaborazione a partire da 78 giri, nastri, etc. È un tipo di sviluppo che pensi si adatterebbe ai cilindri del Phonogrammarchiv? È qualcosa a cui si è pensato?
«Io e Emilio abbiamo ricevuto alcune generiche proposte: diciamo che alcuni artisti, non solo italiani ma anche tedeschi, hanno provato a buttar giù alcune idee su possibili percorsi di rielaborazione dei materiali. Personalmente credo che il corpus si presti a diverse interpretazioni/letture di questo tipo e spero proprio che qualche articolato progetto venga realizzato. Nel contempo spero anche che vi sia un modo per fare circolare le voci del corpus, per farle ascoltare in qualche modo al più vasto pubblico, soprattutto alle giovani generazioni. Sono convinto che l’evidenza del suono delle voci dei prigionieri, al di là di ciò che essi cantano/recitano, offra davvero un contributo notevole per far comprendere la stupidità della guerra, o meglio, come dicono i nostri militari, la sua “innaturalezza”».