L'amore ai tempi di Coltrane

Cinquant'anni fa usciva A Love Supreme, uno dei capolavori di John Coltrane, destinato a diventare uno spartiacque nella storia della musica del Novecento: le riflessioni di Claudio Fasoli e Francesco Bigoni per raccontarlo

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Tornare a parlare di John Coltrane. Per il cinquantesimo anniversario di un lavoro amatissimo e celebrato come A Love Supreme e complice la recente pubblicazione di Offering: Live at Temple University, disco che testimonia un intenso concerto a Philadelphia nel novembre del 1966, pochi mesi prima della prematura scomparsa. Curioso destino quello di Coltrane, musicista che ha segnato un solco profondissimo nella carne viva della storia del jazz, non solo per il lascito strettamente artistico e discografico, ma anche per avere "influenzato" (spesso solo tecnicamente) in modo decisivo le generazioni a venire e per avere rappresentato, con la propria bruciante parabola espressiva, una sorta di esempio orfico e prometeico oltre cui è sembrato quasi impossibile spingersi.
Non è un caso che si usi correntemente l'espressione "jazz post-coltraniano" a indicare una varietà di esperienze creative successive alla sua morte, esperienze spesso molto differenti l'una dalle altre, ma accomunate - in una sorta di sentire comune certo riduttivo - da un senso di smarrimento ideologico e di frammentazione postmodernista cui certo hanno contribuito più i rapidissimi mutamenti delle condizioni culturali e produttive della musica afroamericana che la pur scioccante morte del sassofonista. Tornare a parlare di John Coltrane. Utile e doveroso, specialmente perché l'addentrarsi nella sua produzione degli ultimissimi anni (convenzionalmente quella da A Love Supreme in poi) è impresa che vale la pena di essere affrontata svincolandosi dai luoghi comuni e da pregiudizi. C'è un forte elemento spirituale, innanzitutto, che è elemento inevitabilmente "personale" quanto universale. Il percorso umano e filosofico di John Coltrane è infatti un percorso che unicamente lui ha potuto declinare in quel modo (tra l'altro provenendo da vicende private che lo avevano spinto a una forte disciplina) e che quindi possiamo sì prendere come paradigma complessivo, ma che non può che spingere, pena una banalizzazione un po' naif, verso percorsi di grande intimità.



A Love Supreme (registrato nel dicembre del 1964, ma nei negozi a febbraio 1965) come magia collettiva, irripetibile e al tempo stesso paradigmatica quindi. Un disco capace di dare "voce" alla tensione spirituale del quartetto. E quando diciamo questo lo diciamo anche in un senso decisamente letterale: la "voce" di John Coltrane come elemento di estrema interiorizzazione dell'urgenza. Non è un caso compaia in A Love Supreme così come compare in alcuni momenti del Live at Temple University, trasfigurata nel suo farsi superamento di ogni mezzo/strumento che si possa frapporre tra l'artista e la verità (ah, se solo Coltrane sapesse quanto la voce è rimasta essenziale per il marketing del jazz degli anni Duemila... seppur in una chiave assai più prosaica).
Potrebbe essere solo una "chicca" per intenditori, il disco recentemente uscito (gli appassionati ne conoscevano una parte già uscita su bootleg): eppure colpisce al cuore, quando lo si ascolta. Siamo a Philadelphia, la città di John Coltrane (vi si era trasferito agli inizi degli anni Quaranta) nella Mitten Hall della Temple University. Il gruppo è quello con Pharoah Sanders al tenore (figlio/specchio/discepolo), la moglie Alice al piano, Rashied Alì alla batteria. Ci dovrebbe essere anche Jimmy Garrison, ultimo "reduce" dal quartetto di A Love Supreme, ma per un contrattempo è sostituito al contrabbasso da Sonny Johnson. E poi ci sono una serie di ospiti dell'ultimo momento, sassofonisti e percussionisti locali, a testimonianza della volontà di condivisione del momento creativo da parte di Coltrane. Si ascoltano "classici" come "My Favorite Things", "Crescent" o "Naima", visionariamente scagliati in una sorta di magma ribollente che è al tempo stesso rituale e libertà, identità e fusione. Impossibile restare indifferenti, nonostante non si possa essere lì, annusarla e farla propria questa tensione.



Perché alla fine, quello degli ultimi mesi è un Coltrane poco capito e ancor meno amato. Perché obbliga a farsi domande invece di fornire comode risposte. Perché sfugge con potenza alla volontà classificatoria, così come sembra volere sfuggire alla stessa gravità terrestre. I titoli del periodo sono Stellar Regions, Interstellar Space, cose che si penserebbe piuttosto di trovare nella discografia di un Sun Ra (sarà mica stato questo il motivo del piccolo risentimento del saturnino bandleader che il critico Frank Kofsky riportò a Coltrane in una celebre intervista?). Oltre c'è l'anima, l'infinito, la spiritualità di ogni latitudine: non è forse un caso il progressivo inserirsi nella musica di Coltrane di strumenti e ispirazioni non occidentali (pensiamo a Kulu Sé Mama, ad esempio), una linea che forse il nostro - e qui entriamo nel campo delle ipotesi, si sa - avrebbe esplorato con maggiore compiutezza. Tanti i percorsi e le riflessioni (ne abbiamo chiesta una anche a due sassofonisti italiani, Claudio Fasoli e Francesco Bigoni: la trovate qui sotto) che si potrebbero aggiungere, a conferma che sia A Love Supreme, sia quello che Coltrane suonerà negli intensi due anni e mezzo successivi sono ancora materia viva, ardente, dentro cui trovare sempre nuove traiettorie.

Coltrane secondo... Claudio Fasoli
«Interessarsi all'ultimo periodo di Coltrane è come per un botanico guardare le foglie di un albero: non può farlo senza controllare anche le radici e il tronco. Cosa troviamo infatti nelle sue registrazioni degli ultimi anni? Troviamo materia ribollente, drammatica se non tragica nella sua espressività, soprattutto lacerante, con rare isole di rarefazione. Il discorso è convulso e si sviluppa per moduli improvvisativi sui quali Coltrane si sofferma indagando e scavando, creando quindi episodi quasi autonomi che poi sfoceranno in orizzonti ulteriori. Questo atteggiamento programmatico e improvvisativo è possibile in quanto legato allo sganciamento definitivo da strutture di qualsiasi tipo, come se Coltrane volesse portare a compimento, abiurando l'impiego di temi più o meno armonizzati, la esigenza di esprimersi in assoluta libertà senza nessuna password tematica riconoscibile e/o cantabile. Da questo punto di vista A Love Supreme sembrerebbe quasi datato: esso si colloca però saldamente nel corpus discografico del quartetto storico e ne resta esemplare, simbolico e straordinario reperto. In realtà questo era ciò cui ci aveva già abituati questo quartetto in tutte le precedenti (e future) registrazioni. Successivamente gli si è voluto dare un peso specifico diverso, con riflessioni sul titolo e sulla poesia recitata dallo stesso Coltrane, soffermandosi su temi collaterali che con la musica non hanno relazione alcuna. Per molti A Love Supreme non è il disco "migliore" di Coltrane: è considerato assolutamente rappresentativo di quel suo periodo unitamente ad altri, e quindi è più correttamente definito "uno fra i migliori", per quanto questo possa significare. C'è comunque da dire che il titolo ha la sua parte di responsabilità in questa ambiguità, come ha ben chiarito Ashley Kahn nel suo libro su questo disco. Qui, come altrove, troviamo le qualità espressive del quartetto al vertice e credo che il contributo di Elvin Jones , McCoy Tyner e Jimmy Garrison sia da tenere ancora una volta molto più in considerazione, dato che tutto l'universo coltraniano trova fondamento nel suono che i suoi sidemen erano in grado di fornirgli con una partecipazione che ha portato qualcuno a definire il gruppo , in senso provocatorio e paradossale, il "quartetto di Elvin Jones"!».

Coltrane secondo... Francesco Bigoni
«Da musicista non amo particolarmente le etichette, pur riconoscendone la valenza comunicativa. Tra quelle che evito accuratamente c'è "l'ultimo Coltrane", per due motivi. Primo: ha un che di funereo e di scolastico, un po' come "l'ultimo Leopardi". Tende ad aumentare la distanza storica tra gli ascoltatori (e i musicisti/allievi) e Coltrane, oltre ad ingabbiare quegli elementi della sua vastissima ricerca che altrimenti sfuggono dalle mani, mortificandone l'organicità e l'umanità. Trattandosi di uno dei musicisti più influenti da cent'anni a questa parte (e non solo in ambito jazzistico) è naturale che il suo suono, il suo fraseggio, le sue strategie di organizzazione musicale siano stati sezionati, sviscerati, divisi in periodi e sottoperiodi; a me piace però pensare che gli elementi di continuità tra il Coltrane dell'Olympia e quello del live alla Temple University siano tanti quanti gli elementi di rottura. Secondo: per me "l'ultimo Coltrane" fu il primo. Se escludo la partenza dalla bella antologia della Atlantic in lp, che è anche il primo disco di jazz che ricordi di avere ascoltato e consumato, è da qui che è iniziata la mia esplorazione sistematica della sua discografia: per qualche motivo saltai a piè pari dal quintetto di Miles ad Ascension, Meditations, Expression. All'epoca era il mio preferito era Ascension. Quell'album mi ha aperto una porta su molta della musica che ho ascoltato in seguito e segnalato l'esistenza di giganti come Pharoah Sanders, Archie Shepp, John Tchicai. Lo trovo ancora oggi dirompente: la ricchezza e l'individualità delle voci dei musicisti coinvolti, la semplicità e l'efficacia dell'organizzazione del materiale, la magia del duo di Garrison e Art Davis e dell'ingresso del solo di Tchicai (nella Edition II)».

Questo articolo è stato pubblicato sul "gdm" 321, di gennaio 2015

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