Il Festival Verdi, tra presente e futuro

Dal 27 settembre la nuova edizione della manifestazione tra Parma e Busseto: parlano Anna Maria Meo, Roberto Abbado, Michele Guerra e Barbara Minghetti

Festival Verdi Parma
Un giorno di regno
Articolo
classica

Nella formula ormai consolidata che coniuga un serrato cartellone operistico e concertistico a eventi collaterali che ravvivano la città di Parma per un mese intero, il Festival Verdi prende il via il prossimo 27 settembre.

Il programma parte dalle produzioni di Macbeth (al Teatro Regio, direzione Philippe Auguin, regia Daniele Abbado), Un giorno di regno (al Teatro Verdi di Busseto, direzione Francesco Pasqualetti, regia Massimo Gasparon da un progetto di Pier Luigi Pizzi), Le Trouvère (al Teatro Farnese, direzione Roberto Abbado, regia Robert Wilson) e Attila (di nuovo al Regio, direzione Gianluigi Gelmetti, regia Andrea De Rosa), per poi incrociare generi e linguaggi espressivi offrendo spettacoli come l’indagine psichico-fantastico-onirica di Verdi Macbeth, commissione del Festival Verdi a Lenz Teatro in prima assoluta dal 12 ottobre, o come l’ormai classica lettura in chiave jazz del repertorio verdiano che vedrà quest’anno protagonisti Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura (2 ottobre). Un cartellone ricco e variegato, tra concerti, recital, incontri ed eventi vari per 70 appuntamenti circa in 25 giorni.

Un progetto corale anche nella sua ideazione e realizzazione, il cui cartellone completo e dettagliato si può trovare sul sito del Teatro Regio di Parma, ma le cui caratteristiche abbiamo voluto indagare facendo qualche domanda ai protagonisti della concezione organizzativa e artistica del festival.

Attila - festival Verdi
Attila

Anna Maria Meo è ormai da qualche anno lei al Regio di Parma con il ruolo di Direttore generale.

Lei è una dei protagonisti di una sorta di rinascita – ma io direi “reinvenzione” – di un Festival Verdi che ha attirato sempre più pubblico e che ha raccolto, la scorsa edizione, il suggello del Premio speciale Della Critica Musicale “Franco Abbiati” per lo Stiffelio di Graham Vick. Un riconoscimento che è stato dato significativamente alla proposta più innovativa – almeno per la concezione della messa in scena – espressa da parte di un teatro che è sempre stato collocato per lo più nell’alveo di un approccio tradizionale. Pensando ad una visione generale del progetto, a che punto è oggi il “suo” Festival Verdi?

«Quest'anno il Festival presenta la sua diciottesima edizione e credo che se non fossimo riusciti a dare un'identità e a tracciare un percorso, il Festival sarebbe evaporato. La discontinuità dei risultati degli ultimi anni e la scarsa fiducia del pubblico internazionale ne avrebbero decretato la fine. È stato necessario imprimere un'accelerazione decisa e scolpire un progetto fortemente connotato e che fosse capace di esprimere un'identità. A questo abbiamo lavorato con dedizione assoluta, cercando di sfatare anche il mito di una Parma musicale conservatrice e inscalfibile, se non insofferente nei confronti delle novità. L'esempio da lei citato dello Stiffelio di Vick ha dimostrato che anche i loggionisti più tradizionalisti si sono arresi allo sconvolgente allestimento di Vick e lo hanno applaudito convintamente. È stato uno dei momenti più emozionanti della mia esperienza festivaliera».

«Lo Stiffelio di Vick ha dimostrato che anche i loggionisti più tradizionalisti si sono arresi allo sconvolgente allestimento di Vick e lo hanno applaudito convintamente».

«Ora si apre una fase delicata: non si può dare nulla per scontato e occorre lavorare per consolidare questi risultati e tracciare le linee dello sviluppo futuro del Festival che rispetto ad altre manifestazioni è ancora giovane e ha ancora molto da raccontare. La comunità che si è creata attorno al Festival, la partecipazione della città, coinvolta anche grazie alla carica innovativa di Verdi off che Barbara Minghetti continua a curare, ci fa percepire una energia e una partecipazione straordinarie che generano grande ottimismo».

Guardando a questa edizione 2018, quali sono i caratteri della programmazione nei confronti dei quali nutre più aspettative?

«Questa edizione è particolarmente impegnativa, sia per gli artisti coinvolti sia per la forma che i progetti artistici hanno preso. È un progetto dalle molte sfaccettature che sono certa saprà restituire un Verdi rigoroso dal punto di vista musicale, grazie all'adozione delle edizioni critiche, interpretato dalle voci di grandi artisti e attuale nelle letture registiche sulle quali continuiamo ad investire con convinzione».

anna maria meo
Anna Maria Meo

A partire dal 2018 e per il triennio successivo il Festival Verdi ha affidato il ruolo di Direttore musicale a Roberto Abbado. Lo abbiamo incontrato a Parma dove in questi giorni è al lavoro per la sua direzione de Le Trouvère e per il concerto previsto per il 19 ottobre che lo vedrà alla guida della Filarmonica Arturo Toscanini e del Coro del Regio.

Qual è la sua visione del ruolo che le è stato affiato dal Festival Verdi?

«Innanzitutto, sono molto onorato per questo incarico che mi offre l’opportunità di lavorare in una città dalla profonda tradizione musicale come Parma, che si nutre di una passione che si percepisce chiaramente, a partire dai professionisti impegnati qui in teatro: è un vero valore aggiunto collaborare con loro. Il mio ruolo è coadiuvato da quello del Comitato scientifico presieduto da Anna Maria Meo e diretto da Francesco Izzo, e che comprende membri quali Francesca Calciolari, Damien Colas, Alessandra Carlotta Pellegrini e Alessandro Roccatagliati. Il nostro è un lavoro di équipe, ed è finalizzato a riportare in primo piano tutte le opere di Verdi, nelle differenti versioni che, spesso, non sono conosciute come dovrebbero. È il caso, per esempio, de Le Trouvère, dove le differenze con la versione più familiare sono molteplici, dai ballabili ai colori orchestrali. Si tratta di un lavoro che intende offrire letture originali attraverso edizioni critiche che svelino i diversi aspetti del “mestiere” di Verdi, custodito nelle sue opere».

«Il nostro è un lavoro di équipe, ed è finalizzato a riportare in primo piano tutte le opere di Verdi, nelle differenti versioni che, spesso, non sono conosciute come dovrebbero».

«Un percorso di indagine e conoscenza che passa anche attraverso le occasioni concertistiche: per il programma del 19 ottobre, per esempio, ho scelto pagine dal Guillaume Tell di Rossini e da Les Huguenots di Meyerbeer per tracciare un percorso “francese” – in linea con la connotazione de Le Trouvère – che conduce al Don Carlos, uno dei capolavori verdiani più ispirati».

Restando a Le Trouvère, lei sarà alla guida dell’Orchestra del Comunale di Bologna per il nuovo allestimento al Farnese con la regia di Bob Wilson, artista visionario che, dalle prime esperienze con il teatro di avanguardia newyorkese tra gli anni Sessanta e Settanta (si pensi alla performance Baby Blood o al primo grande successo di Einstein on the Beach con Philip Glass) si è affermato tra i protagonisti del teatro di regia contemporaneo. Quali sono, se vi sono, i punti di contatto tra la sua interpretazione musicale e la lettura scenica e drammaturgica di Wilson?

«Per me Robert Wilson è un “classico dell’avanguardia”, una personalità la cui creatività appare riconoscibilissima nella sua visione drammaturgica. Ho già collaborato con Wilson in passato, realizzando per esempio il Macbeth a Bologna nel 2013. In quella occasione al magma infuocato e, per certi versi, sinistro racchiuso nella musica di Verdi Wilson ha contrapposto in scena una visione glaciale. Potrei dire che la cifra della sua lettura si sviluppa per contrapposizione rispetto alla natura musicale dell’opera che interpreta dal punto di vista drammaturgico. Il lavoro su Le Trouvère, che prevede un impianto con palco e platea in quello splendido spazio unico al mondo che è il teatro Farnese, si svilupperà in quest’ottica, che mi sembra il dato più originale e stimolante del teatro di questo regista».

Roberto Abbado, festival Verdi
Roberto Abbado (Yasuko Kageyama)

Qualche mese fa la città di Parma è stata scelta quale capitale italiana della cultura per l’anno 2020, traguardo che coinvolge naturalmente anche il Festival Verdi. Abbiamo chiesto un parere a riguardo a Michele Guerra, Assessore alla cultura in carica dallo scorso anno, membro di una giunta guidata dal Sindaco ex 5Stelle Pizzarotti, ora al secondo mandato.

Il Festival Verdi rappresenta oggi una delle realtà più rilevanti per l’identità culturale della città di Parma: l’edizione 2018 come si colloca nel percorso di avvicinamento dell’importante traguardo del 2020?

«Il Festival Verdi ha intrapreso una strada che è già di per sé in linea con ciò che deve ispirare un percorso di Capitale della Cultura. Il lavoro sulle edizioni critiche abbinato alla scelta di scommettere su messe in scena innovative come sono state quelle di Greenaway, di Vick e quest'anno di Wilson, che chiuderà il progetto dei Maestri del Farnese, dimostra la capacità di tenere insieme tradizione e sperimentazione e di fare di ogni edizione non soltanto un'occasione spettacolare, ma anche uno spazio di pensiero e di lavoro sui diversi aspetti dell'opera verdiana. La contaminazione dei luoghi, l'avvicinamento alle nuove generazioni, l'internazionalizzazione e il rapporto proficuo pubblico-privato sono temi presenti anche nel dossier di Parma 2020, che devono, qualunque sia la dimensione delle operazioni culturali che seguiamo, restare una bussola importante per percorrere uniti il tratto di strada che ci separa dall'appuntamento con la Capitale della Cultura. Sapere che attorno al Festival si riuniscono così tante diverse realtà culturali della città mi pare sia un'ottima prova della capacità crescente di sentirsi parte di un progetto coeso e unitario».

Barbara Minghetti, già al vertice di As.Li.Co e dallo scorso anno direttore artistico dello Sferisterio di Macerata, è a tutt’oggi Consulente per lo Sviluppo e per i Progetti speciali del Regio parmigiano e a lei abbiamo rivolto una domanda in merito al rapporto tra festival e le iniziative collaterali che abitano la città di Parma in questo “ottobre verdiano”.

Il Festival Verdi è cresciuto in questi anni anche grazie a una serie di attività che, nate a corollario del cartellone principale, hanno contribuito da un lato a rendere varia l’offerta di spettacoli, anche in funzione delle diverse fasce di pubblico, e dall’altro a radicarne la condivisione in una città che è sempre apparsa alquanto distaccata dal festival, almeno fino a qualche tempo fa. Quali sono i caratteri salenti delle attività cosiddette “collaterali” a questa edizione 2018?

«Riteniamo importante affiancare al Festival Verdi che porta a Parma e a Busseto migliaia di persone provenienti da tutto il mondo, una serie di iniziative che si occupino della comunità in senso allargato e multidisciplinare toccando tutti i luoghi cittadini: dalle strade alle piazze, dalle Abbazie alle chiese sconsacrate, dalle case private ai cortili, dal cinema alle biblioteche, dalla Camera di San Paolo al Museo d’Arte cinese, al Parco della Fondazione Magnani Rocca, a sedi industriali e a luoghi più difficili quali l’ospedale dei bambini o il carcere. In questi luoghi e in molti altri realizzeremo istallazioni, spettacoli per bambini e famiglie, picnic, concerti corali di notte, musica lungo il torrente, danza e fisarmonica al Parco Ducale, dal rap verdiano alla musica sacra, con produzioni commissionate ad hoc e oltre 130 appuntamenti a ingresso libero. Con Verdi Off a fianco delle grandi produzioni si vuole proporre un Verdi più vicino, a volte più scanzonato, ma sempre attento alla sua origine, affinché il Festival Verdi sia sempre più il festival della città e del territorio».

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