Il coraggio di PJ Harvey

Un disco che si confronta con i dolori del mondo contemporaneo: fra Kabul, Kosovo e Washington D.C.

Articolo
pop

PJ Harvey
The Hope Six Demolition Project
Island

“Ho preso un aereo verso un paese straniero/Dicendo che avrei scritto ciò che avrei trovato”, canta Polly Jean Harvey in “The Orange Monkey”, dichiarando l’intento del complesso progetto che finora ha fruttato il volume di poesie (sue) e fotografie (di Seamus Murphy, nella circostanza suo compagno di viaggio) The Hollow of the Hand, con reading previsti a Genova e Milano, rispettivamente il 15 e il 16 giugno, e questo disco (ma in agenda c’è anche un documentario destinato a testimoniare l’esperienza).

Tappe del tragitto: il Kosovo, l’Afghanistan e Washington DC. La canzone d’apertura, “The Commodity of Hope”, descrive ciò che la cantautrice ha osservato visitando la capitale statunitense, in particolare la settima circoscrizione, uno dei luoghi interessati al programma di riqualificazione urbanistica chiamato Hope VI (da cui il titolo dell’opera). Il quadro di degrado dipinto nel testo di quel brano – ballata rock dall’impianto classico, modello Patti Smith – ha provocato addirittura alcuni interventi polemici da parte degli amministratori della città (tra i quali l’ex sindaco Vincent Gray) i quali, punti nel vivo, hanno accusato Harvey di pressapochismo. Nel medesimo scenario sono ambientati “Near the Memorials to Vietnam and Lincoln”, “The Ministry of Social Affairs” (introdotto dal campionamento dello standard blues di Jerry McCain “That’s What They Want”) e “The Ministry of Defence” (con cameo in voce del poeta reggae londinese Linton Kwesi Johnson), che però guarda pure a Kabul.



Il vociare del mercato della capitale afgana introduce il dolente episodio conclusivo, “Dollar, Dollar”, mentre è invece il Kosovo a conquistare il centro della scena in “Chain of Keys” (“Immaginate cos’hanno visto i suoi occhi”, recita un verso riferito a un’anziana donna del posto) e, verosimilmente, poiché racconta di un campo profughi, “A Line in the Sand”. Se nel precedente Let England Shake la cantautrice britannica aveva soffermato l’attenzione sullo stato del Regno Unito durante e dopo la Prima Guerra Mondiale, qui allarga il raggio d’azione e sposta l’asse cronologico, tracciando un itinerario del dolore che indugia su ferite del mondo contemporaneo non ancora rimarginate. Tutt’altro che un “facile ascolto”, dunque. La musica – abbozzata all’inizio dello scorso anno in una sala prove allestita presso la Somerset House di Londra come fosse un’installazione d’arte: gli spettatori potevano assistere, non visti, al procedere del lavoro – asseconda l’intensità emotiva delle parole: dall’impetuosa fierezza di “The Wheel”, con i fiati in primo piano, all’atmosfera al tempo stesso esotica e struggente di “River Anacostia”. Molte altre cose si potrebbero dire a proposito di The Hope Six Demolition Project: di tutte, comunque, la più appropriata sarebbe sottolineare il coraggio delle intenzioni che lo informa.

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