«I believe the songs»

Il sociologo Andrea Cossu riflette sul Premio Nobel a Bob Dylan

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L’attribuzione del più importante riconoscimento letterario a un musicista, e per giunta a un musicista pop – per quanto ampiamente sdoganato dagli intellettuali, e in tempi non recenti – è di per sé una notizia. Ma in fondo è una notizia – e forse anche più interessante – che questa attribuzione, non certo estemporanea (se ne vocifera da anni), abbia causato così tante reazioni, dall’euforico all’indignato. Dai troll su Facebook ai più colti intellettuali e opinionisti, in Italia e nel mondo, molti si sono sentiti in dovere di schierarsi a favore o contro la decisione dell’Accademia di Svezia. Per fare il punto sul Nobel a Dylan, e sulle reazioni pubbliche che ha causato, ci siamo rivolti ad Andrea Cossu, docente di Sociologia della Cultura presso l’Università degli Studi di Trento. Cossu, che si occupa di studi sulla performance, sociologia dell’arte e teoria e storia della sociologia, ha dedicato uno splendido libro a Bob Dylan e la “performance dell’autenticità” (It Ain't Me, Babe: Bob Dylan and the Performance of Authenticity, Paradigm 2012 – qui trovate un estratto).

Come studioso e come amante di Dylan, come hai reagito alla notizia del Premio? Le due posizioni si possono – o si devono – scindere?

«Stavo facendo lezione. Appena uscito ho ricevuto un messaggio che diceva: “Sei contento per Dylan?”. Pensavo che avessero annunciato le date di un tour europeo, per dire quanto ritenessi probabile l’assegnazione del Nobel. Il fan ha subito iniziato a gioire, e la gioia è durata qualche ora passata a recuperare oscure versioni dal vivo. Dopo un po’ è entrato in campo il sociologo. Con il Nobel Dylan è stato sacralizzato in una sfera che non è quella immediata della sua attività artistica. Diventa, per così dire, parte del canone della “cultura alta” (sempre che questa distinzione abbia senso). Si tratta tuttavia di un punto di avvio di un percorso lento che è iniziato già negli anni Novanta e che lo ha portato a importanti riconoscimenti. Molte di queste onorificenze si soffermano su alcuni aspetti della opera di Dylan, il suo essere indissolubilmente legato agli anni Sessanta in termini cronologici, e la percezione di Dylan come un “poeta” che trascende i confini stilistici del songwriting. È una visione parziale, che fossilizza una immagine pubblica di Dylan, e non prende in considerazione l’aspetto centrale della sua carriera, ovvero la capacità di produrre tanti “Bob Dylan”, una maschera artistica in costante mutamento».

Perché Dylan interessa a un sociologo?

«La domanda che mi incuriosiva quando ho iniziato la mia ricerca era apparentemente molto semplice: come fa Bob Dylan a passare da aspirante folksinger che voleva cantare la canzoni di Woody Guthrie a rockstar di livello mondiale, paragonabile forse solo ai Beatles per impatto culturale? Molto presto mi sono reso conto che le soluzioni tradizionali non erano praticabili. Molti libri (anche di autori più “accademici”) si concentrano sull’analisi testuale, e qualcuno (come Sean Wilentz) sulla storia culturale. Questa letteratura ha dei meriti grandissimi, ma resta molto esterna alla sociologia. La soluzione che ho adottato è stata quella di considerare Dylan sotto la lente dei performance studies. Dylan, per me, è non solo un songwriter ma soprattutto un performer, uno che scrive in funzione della performance delle sue canzoni, su disco ma soprattutto dal vivo. Tralasciare questa dimensione non permette di avere una visione totale di Bob Dylan. Questo è vero soprattutto per i fan, ma sembra vero anche per Dylan stesso. Tutte le sue svolte hanno avuto una espressione pubblica: suonare “Maggie’s Farm” a Newport nel 1965, prendersi del Giuda a Manchester nel 1966, o ancora i tour della fase cristiana del 1979-80. Dylan ha sempre reso le sue svolte ben visibili nello spazio pubblico dei concerti. E la dimensione dal vivo riveste per un sociologo un’importanza altrettanto grande della dimensione più “letteraria”. Inoltre, mi interessava anche un altro aspetto, più legato alla analisi della produzione culturale e dei processi di consacrazione degli artisti: cosa succede a New York tra il 1961 e il 1963, quando Dylan trasforma il folk revival ed emerge? Essendo molto scettico nei confronti delle spiegazioni che privilegiano il genio e il talento “naturale”, ritengo che vi fossero specifiche condizioni sociali in grado di favorire l’affermazione di persone come Dylan. Se vogliamo, Dylan continua ad agire e a pensare secondo le regole che ha imparato nel Greenwich Village al suo arrivo a New York e capire cosa successe facendo una “sociologia storica” è essenziale».

Mai come nel caso di Dylan, così tanta gente (più o meno titolata) si è sentita in dovere di schierarsi pro o contro la scelta della commissione del Nobel. Perché?

«Perché Dylan è stato una figura controversa fin da quando ha costretto il preside del suo liceo a spegnere l’amplificazione del teatro, ed eravamo dieci anni prima di Newport 1965. Troppo rumore, troppi suoni sgraziati, troppo rock and roll. E poi abbiamo piccole o grandi controversie su Dylan nel 1961, nel 1963, nel 1965, nel 1979, fino a quello che viene percepito come un declino, soprattutto a causa di una potenza vocale sempre più limitata. Se non ci sono controversia pubblica e polarizzazione, non c’è Dylan. Per molto tempo, queste controversie sono rimaste limitate all’ambito musicale (o alla discussione tra i fan). Con il Nobel entrano in gioco nuovi attori, i critici letterari e gli scrittori professionali. In fin dei conti, non fanno altro che riprodurre le immagini di Dylan a cui facevo riferimento prima, e che sono probabilmente le uniche di cui hanno conoscenza. Ritengo che sia una lettura superficiale, da cui però emerge la paura di vedere il proprio quartier generale bombardato non solo dalla musica popolare e da forme moderne e al tempo stesso antiche di espressione, ma anche da un sostanziale cambiamento delle regole del gioco. È abbastanza normale nel caso di Nobel “di rottura”. Oggi Baricco e Gramellini storcono il naso, al tempo del Nobel a Fo fu Mario Luzi a esprimere il proprio disappunto. Pazienza: come scrive Dylan, lui è “still on the road headed for another joint”, e se si fosse curato di tutti i critici che ha avuto durante la sua carriera probabilmente sarebbe un oscuro commerciante in Minnesota, e non Bob Dylan».

Tu hai dedicato un libro alla “performance dell’autenticità”, osservando con attenzione i vari snodi nella carriera di Dylan, la costruzione del suo personaggio da folksinger ad artista a rockstar... è finito un nuovo capitolo?

«Penso che “Dylan”, come rappresentazione collettiva, ormai proceda su un doppio binario. Da un lato, c’è il Dylan che fa parte della memoria pubblica, legato indissolubilmente agli anni Sessanta e percepito attraverso la lente dei suoi testi. Dall’altro, c’è un Dylan più esoterico e tuttavia più accessibile, quello che fa ancora 80 concerti all’anno (non tutti buoni), e che continua quello che sembra essere il progetto dell’ultima fase della sua carriera: quello di segnalare costantemente che è parte di una tradizione musicale – sostanzialmente americana – che dura per secoli e coinvolge tutta la colonna sonora dell’America, dalle vecchie ballate a Sinatra, dai canti di natale al blues di Charley Patton. Secondo me Dylan non si stacca da questa tradizione, ne è interprete, traduttore, e forse anche un imprenditore che cerca di conservare più a lungo possibile questa memoria».

Dalla tua prospettiva, il Nobel a Dylan che significato ha sulla storia della popular music – e, dall’altro lato, su quella della letteratura del Novecento?

«Si potrebbe trattare di una accettazione definitiva o della decisione di premiare un artista che resta comunque al di fuori dei canoni, nonostante abbia contribuito a scriverne le regole. Mi interessa molto la motivazione dell’Accademia nel conferirgli il Nobel: “for having created new poetic expressions within the great American song tradition”. Ecco, è una motivazione molto adatta. C’è dentro tutto Dylan, l’autore di testi molto originali e di pastiche che sintetizzano quella tradizione, dai poeti della guerra civile ai musicisti di Appalachian Blues come Ashley e Dock Boggs. E ciò porterà – spero – a una riscoperta dell’ultimo Dylan e del Dylan minore, in cui questa grande tradizione americana è sempre presente. Mi fa piacere pensare che il Nobel l’abbia preso per “Visions of Johanna” e per “High Water (for Charley Patton)”, e che esista un filo che lega queste ed altre canzoni».

Domanda-profezia. Che succede ora? Che scenari si aprono? Che cosa dirà Dylan – se dirà qualcosa?

«È molto difficile dirlo e molto spesso a fare profezie si viene smentiti dai fatti. Io penso che Dylan abbia già detto molto, e che lo abbia fatto durante i suoi concerti di questa settimana. È meno imperscrutabile di come si dipinge e di come lo dipingono i giornalisti. Dal giorno dell’annuncio del Nobel, ha ripreso in mano la chitarra elettrica dopo quattro anni passati al piano o solo di fronte al microfono; ha abbandonato la sua maschera ottocentesca, con i vestiti che lo rendono simile a un giocatore di carte su un battello a vapore nel Mississippi della guerra civile (un’immagine che gli è particolarmente cara, secondo me). E ha chiuso i suoi concerti con una cover di “Why Try to Change Me Now?”. Tutto ciò mi sembra in linea con quanto ha affermato spesso durante questa fase della sua carriera: “The songs are my lexicon. I believe the songs”».

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