Dave Brubeck, un eroe americano

La morte a novantadue anni di uno dei grandi "divulgatori" del jazz

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In barba al maledettismo del jazz, Dave Brubeck (6 dicembre 1920 - 5 dicembre 2012) ci ha lasciati a quasi 92 anni: una vita piena, ricca di successi e professionalmente lunghissima, spesa a comporre e suonare fino agli ultimi giorni. Pioniere dei ritmi dispari nel jazz, alfiere della third stream (la fusione di jazz e classica), leader di uno dei gruppi più popolari a livello planetario, pianista singolare e riconoscibile, Brubeck ha lasciato alla musica del Novecento un'eredità ricchissima. Formatosi in quel laboratorio quietamente radicale che è stata la California del dopoguerra, allievo modello di Darius Milhaud, propugnatore con il suo ottetto giovanile della fusione del linguaggio jazz con le forme della musica classica (fuga, sonata, tema e variazioni), Brubeck ha raggiunto la fama quando - grazie ad un'intuizione della moglie - ha rivolto il suo nuovo quartetto al crescente pubblico delle università: giovani che cercavano qualcosa di più sofisticato del rock'n'roll e che fosse gradevole all'ascolto. La miscela del gruppo era perfetta: sopra lo swing elastico di Gene Wrigh e Joe Morello, si confrontavano il sax alto diafano, lucido e avvincente di Paul Desmond e il pianismo in crescendo, muscolare e a blocchi, di Brubeck. Con Max Roach si contesero la primogenitura dell'esplorazione dei ritmi dispari nel jazz: non solo il 3/4, ma soprattutto il 5/4 e il 9/4, squadernati nello storico album Time Out del 1959, in cui si ascolta il celebre "Take Five" (per la verità scritto da Desmond) e il profetico "Blue Rondo a la Turk", che per la prima volta portava i ritmi bulgari dello horo nel jazz.

Divenuto la punta di diamante dei tour del Dipartimento di Stato, che combatteva la guerra fredda anche a colpi di esportazione del miglior jazz, negli anni Sessanta il quartetto di Brubeck toccò paesi come lndia e Giappone, da cui trasse ispirazione per un approccio moderatamente world e gettò i semi in loco per le successive, floride scuole nazionali. E intanto il pianista non trascurava la sua ragguardevole vena compositive, con lavori third stream di pregevole fattura, come i Dialogues for Jazz Combo, che meriterebbero una riscoperta.

Per il pubblico bianco e borghese occidentale (ma non solo), Brubeck e il quartetto divennero sinonimo di jazz. Per i neri che vedevano nella musica un'arma per la rivendicazione dei diritti civili la sua musica era fumo negli occhi, macchinosa, priva di autentico swing e senso del blues. Ma la realtà non era così netta: Brubeck stesso ha spesso usato il suo potere contrattuale per imporre gruppi integrati (il bassista Gene Wright era nero); ha composto un magnifico lavoro, The Real Ambassadors, protagonista Louis Armstrong, di netta ed esplicita propaganda politica. E poi proprio il più arrabbiato dei musicisti free, Cecil Taylor, non faceva mistero di aver costruito le fondamenta del suo stile proprio sui blocchi percussivi scolpiti da quel pianista bianco. E di lì a poco il giovanissimo Anthony Braxton avrebbe candidamente dichiarato che il sassofonista che lo aveva più influenzato era Paul Desmond.

La scomparsa prematura di Desmond (1977) fece riavvicinare Brubeck al suo vecchio compagno di conservatorio Bill Smith, e la musica prese una piega più pensosa e a tratti sperimentale. Con i suoi figli eccellenti musicisti, Brubeck ha quindi messo su una sorta di impresa di famiglia, per la verità schiacciata dalla memoria del grande quartetto, ma dagli esiti di buona qualità (il figlio Darius, ottimo bassista, è poi diventato una figura chiave della didattica jazz in Sudafrica). Con la sua musica luminosa, testardamente ottimistica, scevra da pose falsamente drammatiche, Brubeck è stato capace di coniugare come pochi linguaggio complesso (politonalità, ritmi dispari, esotismi) e comunicazione popolare, divulgando il jazz su un orizzonte globale. A suo modo, un vero eroe americano.

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