Confessioni di DJ Rupture

Esce in Italia Remixing di Jace Clayton (EDT): un lucido viaggio nella musica del XXI secolo

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Musicista, DJ, giornalista, Jace Clayton – alias DJ/rupture – percorre il mondo in lungo e in largo dal 2001, quando un suo oscuro mixtape nato per caso – Gold Teeth Thief – diventa un piccolo culto nell'allora nascente mondo della musica su internet. Riflettendo a partire dai suoi viaggi, dai suoi incontri, dalla musica fatta e ascoltata, Clayton ha messo insieme una delle più lucide riflessioni su che cosa sia diventata la musica in questo primo scorcio di XXI secolo: Remixing. Viaggi nella musica del XXI secolo(EDT 2017) è in uscita a giugno in Italia: ne presentiamo un estratto dal primo capitolo.

Clayton presenterà il suo libro al festival La Grande Invasione di Ivrea (TO): il 3 giugno con un DJ set serale, e il 4 giugno alle 19.30 in dialogo con Valerio Corzani.

Confessioni di un DJ

Lo scorcio iniziale del ventunesimo secolo ce lo ricorderemo per l’enorme quantità di cose dimenticate.

Fra i modi in cui comunichiamo fra noi e in cui facciamo esperienza del mondo sono sempre di più quelli che stanno assumendo una natura digitale, e quindi si smaterializzano; moltissimo finisce perduto, mentre emergono molte possibilità nuove. Fra cent’anni il periodo che stiamo vivendo sarà considerato un punto di svolta decisivo: il punto in cui dall’analogico siamo passati al digitale. Le peculiarità di questa transizione appaiono chiare e distinte soprattutto nell’ambito della musica: mi riferisco a quella magia in forma d’onda che si propaga quando lo spirito umano e la tecnologia uniscono le forze per creare vibrazioni che ci conquistano, al di là delle lingue e delle generazioni, a mezz’aria fra novità e tradizione, e che chiedono sempre di essere condivise. Il battito cardiaco dello Zeitgeist. Basta una canzone di tre minuti per fermare il tempo, proprio come un campionamento riesce, in tre secondi, a evocare decenni di storia. La musica cronometra la velocità della nostra epoca; poi, secondo l’esigenza del momento, la distende, la contrae, le dà ritmo e attualità.

Da vent’anni a questa parte, è indiscutibile, la tecnologia digitale ha modificato la musica ogni suo aspetto: ispirazione, produzione, distribuzione, esecuzione e ricezione – tutto insomma. In qualche caso la situazione è peggiorata, ma per lo più è migliorata. E queste profonde trasformazioni elettroniche non sono che una parte del quadro. Se penso a che cos’è stata la mia vita da quando ho cominciato a fare il DJ in ambito internazionale, nel 2000, mi vengono le vertigini: non so più quante città ho attraversato, quanti fusi orari. Mia moglie a volte mi chiama “il re del jet-lag”. Posso dire, senza esagerazione, di aver preso un migliaio di aerei, e dovunque sia andato mi ha colpito come la varietà di circostanze locali complichi o addirittura contraddica la versione standard, offerta dai media, su come stia cambiando la musica. Più viaggiavo, meglio lo capivo: i modi in cui facciamo, fruiamo e valutiamo la musica sono mutati, e nel farlo hanno creato dei nuovi significati sociali che vanno al cuore di che cosa significhi vivere nella nostra epoca interconnessa e imprevedibile.

Ho lavorato come DJ in quaranta paesi, più o meno. Non posso dire che in nessuno il mio lavoro sia veramente popolare, tuttavia ho trovato sempre chi conosceva me e la mia musica, e che si è prestato volentieri a mostrarmi le cose che contano, e perché contano, nel suo particolare ambiente.

Cipro del Nord – la sezione più settentrionale dell’isoletta del Mediterraneo che si è separata dalla Grecia nel 1974 dopo una guerra – non è un posto facilmente raggiungibile. Anche perché è riconosciuto ufficialmente da un solo paese, la Turchia. Eppure, eccoci lì a sfrecciare in un paesaggio arido, passando accanto a ville color pastello simili a bunker, incarnazione architettonica della paranoia militaristica e della eccessiva ricchezza, diretti verso un hotel a quattro stelle completamente vuoto. Lì ci saremmo riposati per un giorno, e poi saremmo andati a suonare fra i ruderi di un castello dei crociati. L’anno era il 2000, e io ero turntablist di un gruppo newyorkese di acid jazz. Non che a loro un DJ servisse davvero. Serviva piuttosto una presenza che denotasse “hip hop”, e quella ero io. In tutto eravamo in sei: il leader-sassofonista, un bassista, un batterista, un addetto ai campionamenti haitiano e una cantante, Norah Jones, allora nota esclusivamente per essere la figlia di Ravi Shankar.

Il taxi ci mollò all’hotel, lo trovammo praticamente deserto; nel casinò, dietro i tavoli da gioco vuoti, c’erano quattro annoiati valletti in livrea e ben altri due ospiti paganti, due anziani pensionati inglesi, relitti dei giorni in cui Cipro era un paese unico, prima del 1974. Scaricai la mia attrezzatura e mi sedetti al bordo della piscina a chiacchierare con la nostra ospite. Volevo capire perché mai ci avessero fatto venire addirittura da New York per suonare in quell’opulenta isola deserta. A cinquanta chilometri di distanza, abbarbicato alla costa, si alzava nella bruma un gruppo di alti edifici in vetro e acciaio. «Che città è?» domandai. Sembrava Miami. «Varosha» fu la sua risposta, completamente evacuata dopo la guerra del 1974. Una città fantasma sul confine che separa Cipro del Nord da Cipro del Sud, frequentata soltanto da unità militari dell’ONU – e da ragazzi dell’una e dell’altra parte, che entravano illegalmente nella zona proibita per vivere in quella che potrebbe sembrare una fantasia alla J.G. Ballard: feste sibaritiche in località di mare abbandonate.

Se Cipro del Nord rappresentava il lato dimenticato di una faglia di conflitto globale, a pagarci chi sarebbe stato? A chi appartenevano quelle ville sparse che avevamo visto lasciando l’aeroporto? Erano narcodollari a sovvenzionare quel viaggio, destinato a intrattenere qualche criminale nel suo nascondiglio desertico, o qualche fondo del governo turco per favorire il turismo? Non l’ho mai saputo. Feci il mio lavoro, con i guadagni comprai un laptop, lasciai il gruppo e da New York mi trasferii a Madrid.

[...]

Nel 2001 registrai un mix di sessanta minuti con tre piatti, s’intitolava Gold Teeth Thief e, volutamente, non aveva né capo né coda: si apriva con Missy Elliott, la futurista dell’R&B, e finiva con Muslimgauze, un oscuro uomo-orchestra di Manchester che sovrapponeva registrazioni sul campo di musiche mediorientali a basi elettroniche in stile trance. Caricai tutto su internet per farlo sentire ai miei amici: a chi altro poteva interessare? Poi uscì una recensione su una rivista, quindi un’altra e poco dopo moltissime altre, e di conseguenza centinaia di migliaia di download. Io intanto avevo traslocato a Madrid, dove conducevo bello tranquillo la mia vita senza accesso internet regolare. Non avevo idea di quello che stava succedendo.

Qualche mese dopo aver messo online il mio mix, mi telefonò una grande etichetta indipendente europea: avevo usato nel mix una canzone di cui possedevano i diritti. E ne erano entusiasti! Era la migliore DJ session che avessero sentito da tempo! Volevano quindi i diritti di Gold Teeth Thief per distribuirlo come si deve, ammesso che riuscissero a pagare alle varie etichette la tariffa di mille dollari per canzone. «Sarebbe una meraviglia – dissi io – ma chissà il costo, ho usato quarantaquattro canzoni. Alcune sono dei successi pop, altre dei bootleg di cui non sono disponibili i diritti. Sarebbe un incubo burocratico». Loro vollero comunque avere a tutti i costi l’elenco completo per mettere subito all’opera il loro ufficio legale. Risultato: «Impossibile. Gli avvocati ci hanno riso in faccia».

L’opera del DJ, come processo, è in questi tempi inevitabile e necessaria, un modo elegante di gestire il sovraccarico di dati. Come performance, è quello che fa ballare i ragazzi in tutto il mondo; come prodotto, è largamente illegale. Se io fossi stato una band e Gold Teeth Thief un album e non un mix, quella sarebbe stata la mia grande occasione. Una grande etichetta, un lauto anticipo, un ufficio stampa con i contatti giusti, una tournée coordinata. Invece a un DJ, anche molto noto, capita più spesso di ricevere una diffida che un contratto per un album di mix da parte di un’etichetta importante.

Non è nemmeno il caso di prendersela. La cultura della viralità non va d’accordo con le leggi sul diritto d’autore. Quando l’ho realizzato, sapevo benissimo che Gold Teeth Thief non aveva nessuna prospettiva nei canali commerciali. Non ne aveva bisogno. Il passaparola e i bootleg dei mix sono la valuta simbolica del DJ; il contante viene dalle esibizioni. Qualche mese dopo aver pubblicato online Gold Teeth Thief ho ricevuto la prima vera proposta d’ingaggio. Un coreografo di Berlino volle pagarmi il viaggio, ospitarmi una o due notti e darmi cinquecento dollari per suonare. Per fortuna non si mise a tirare sul compenso, perché sarei andato gratis: ricevere l’equivalente di un mese d’affitto a Madrid per mixare i miei dischi preferiti! Mi girava la testa. Non avrei mai immaginato che quella fosse solo la prima di molte offerte del genere. Gold Teeth Thief, alla fine, si era rivelato un eccellente biglietto da visita.

Negli anni successivi avrei cominciato a esibirmi in posti remoti e in megalopoli cosmopolite: un club tentacolare su più livelli a Zagabria, una piccola galleria a Osaka, un ex bordello di São Paulo, il Museo americano di storia naturale. Nello stesso tempo, incrociavo sulla mia strada un’enorme varietà di musicisti, produttori, appassionati, artisti visivi, profeti della tecnologia e altri DJ di tutto il mondo, e spesso collaboravo con loro. In alcuni casi si trattava di veterani che avevano alle spalle già parecchi giri del mondo, in altri di adolescenti che per la prima volta nella vita varcavano i confini del loro villaggio subsahariano.

Il succo del discorso? Ho visto e ho imparato molto di più che se me ne fossi stato tranquillo in Massachusetts. Senza nemmeno accorgermene, nel momento stesso in cui il mondo della musica compiva una transizione spasmodica e incerta dall’analogico al digitale, io ricevevo un’educazione di prima mano sugli sconvolgimenti creativi della produzione dell’arte nel mondo globalizzato del ventunesimo secolo.

La foto di apertura è di Erez Avissar

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