Il bianco, il nero, il jazz

Una conversazione con Stefano Zenni sul suo nuovo libro Che razza di musica (EDT)

Articolo
jazz

Essendo Stefano Zenni un autore che in questi anni ha pubblicato testi anche particolarmente ambiziosi e articolati, si potrebbe correre il rischio di considerare la sua ultima fatica, Che razza di musica: Jazz, blues, soul e le trappole del colore (EDT Risonanze, 184 pp., 11,50€) un libretto in qualche modo “minore”, ma si commetterebbe un grande errore.

Sebbene infatti si tratti di un lavoro intenzionalmente snello, questo nuovo saggio ha il grande pregio di sintetizzare e problematizzare in modo molto interessante tutta una serie di temi, in primis il rapporto fra razzismo e musica e l’utilizzo stesso dei termini “bianco” o “nero” per caratterizzare questa o quella musica.

Zenni affronta, in una serie di agevoli capitoli, temi quali appunto il razzismo, il contributo di musicisti ebrei, italoamericani o bianchi in genere al linguaggio jazzistico, l’affascinante questione del passing e il senso politico della blackness, smontando tutta una serie di luoghi comuni in cui non solo gli appassionati più ingenui, ma spesso anche professionisti incappano in maggiore o minore buona fede.

Ne esce un libro davvero utilissimo e in un certo senso spiazzante, perché se da un lato smonta tutta una serie di “dogmi” piuttosto fragili di fronte a un’analisi di respiro multidisciplinare, dall’altro ci consegna un mondo musicale che proprio in virtù della sua capacità di trascendere le barriere culturali, difficilmente potrà trovare oggi – al di là delle più o meno azzeccate trovare di marketing – una forte caratterizzazione identitaria in grado di accendere l’interesse di comunità numerose di ascoltatori.

Abbiamo fatto una chiacchierata con Zenni proprio su questi temi.

Inizierei un po’ dalla genesi del libro. Cosa ti ha spinto ha affrontare in modo sistematico/sintetico un ventaglio di questioni così ampio e complesso? Qual è stato l’equivoco o il pregiudizio che nella tua vita di studioso hai avuto più difficoltà a sradicare dal tuo pensiero?
«Il libro è nato da una delle Lezioni di jazz per l’Auditorium Parco della Musica, che tengo da quattro anni. La conferenza trattava dei rapporti tra bianchi e neri nel jazz. Il libro è stata l’occasione per andare molto più a fondo sui temi accennati in quella lezione.
Quanto ai pregiudizi, da adolescente ero fermamente convinto che il jazz fosse superiore ad altre musiche, una posizione che ho mantenuto per diversi anni. In realtà si trattava del tentativo di una mosca bianca di sopravvivere tra compagni di scuola ostili! Più tardi, un certo afrocentrismo spinto, frutto dell’influenza peraltro benefica di Marcello Piras, mi ha impedito per un po’ di cogliere certe complessità e contraddizioni che ora mi sembra di vedere con più chiarezza».

  Molte pagine sono dedicate alla figura di Gershwin e al contributo della cultura e della musica ebraica alla “costruzione” del linguaggio jazzistico. Nel suo bel libro New York Noise la studiosa Tamar Barzel sottolinea come, a differenza dell’ambito dei comici, molti musicisti jazz e soprattutto rock ebrei abbiano tendenzialmente evitato di connotare dal punto di vista “razziale” la loro immagine e opera, tanto che alcuni dei principali esponenti della Radical Jewish Music ammettono senza problemi che la musica klezmer e la stessa jewishness era stata piuttosto accantonata (o addirittura occultata) nelle famiglie da cui provenivano, a favore di una più democratica “americanizzazione”. Quali istanze secondo te emergono dalla ridefinizione di questi parametri culturali?
«Se si studia il contributo ebraico al jazz, si coglie bene l’alternanza di fasi di assimilazione ad altre di autonomia culturale espressiva. E queste fasi sono legate alla definizione di chi è “bianco” negli USA, un tema che tratto nel libro. Con l’emergere del liberalismo l’assimilazione sembrava fatta, ma i giovani artisti della Radical Jewish Music si sono resi conto che a quel punto non c’era più niente di cui vergognarsi, anzi. E che rivendicare l’appartenenza ebraica era un modo per ridefinire i rapporti di potere: sottolineando l’autonomia della Radical Jewish Music, se ne esaltava la forza incisiva sulla realtà. Non puoi confonderla con altre musiche e al tempo stesso senti che incide sulla musica d’oggi. Cosa che ha funzionato grazie all’incredibile energia di un personaggio come John Zorn».

 

Nel bel capitolo dedicato al passing (il farsi “passare” per individuo di altra razza o cultura) pensavo di leggere anche qualche riferimento a Ombre di Cassavetes o al professor Coleman Silk  di Philip Roth (protagonista di La macchia umana)…
A parte questo, ci sono vicende come quelle di Mezz Mezzrow che mi ricordano poi un libro fantastico come Credetemi, c'ho provato di Mishna Wolff, l’hai letto?
«Non ho letto il libro della Wolff, ma colgo subito il suggerimento. Quanto al resto, non sono riuscito a mettere tutto quello che desideravo (la musica di Ombre è costituita da improvvisazioni in solitaria dell’allora sassofonista di Charles Mingus, Shafi Hadi). E poi ci sono molti altri film che parlano di passing, ad esempio Pinky. La negra bianca di Elia Kazan (1949).
Quanto a Roth, sono stato in dubbio a lungo se citarlo o meno. A mio avviso si tratta di un capolavoro, e la pagina in cui Coleman Silk si risolve per il passing è di rara potenza. Però a me interessava soffermarmi di più sul racconto di Nella Larsen, per la vicenda biografica dell’autrice e per la collocazione cronologica, posta negli anni più intensi del passing degli africano americani. Inoltre la Larsen analizza con acume le incertezze psicologiche e il senso di costante allarme in cui vive chi ha compiuto il passing, rispetto al granitico Coleman Silk. Magari in una prossima edizione mettiamo dentro anche Roth.



La seconda parte del libro mi pare davvero fondamentale per chiunque si voglia confrontare in modo non dogmatico con queste questioni. Evidenzierei questo destino ambivalente per gli africano-americani, che per guadagnarsi da vivere con la propria arte devono rafforzare i medesimi stereotipi che li escludono dall’integrazione. Trovi che ci siano artisti che hanno esasperato questa dinamica in un senso, o altri che non volendo sottoporsi a questa dinamica sono stati ingiustamente sottovalutati?
«La dinamica che sottolinei è stata messa in luce dall’ultima generazione di studiosi ed è un salutare bagno di realtà, perché sottrae la storia della musica africano americana alla bolla in cui è stata relegata per reinserirla nella dialettica contraddittoria delle relazioni razziali statunitensi. Credo che uno studioso come Ronald Radano, al di là di tutte le esasperanti pesantezze accademiche della sua scrittura, abbia fatto un gran lavoro per restituire una diversa dimensione del rapporto (musicale) padrone-schiavo.
L’artista che forse ha sofferto più di tutti di questa dinamica perversa è stato Louis Armstrong, la cui maschera è stata oggetto di attacchi, equivoci, critiche. In senso opposto il nero di pelle chiara George Russell, con la sua attitudine teorica e intellettuale estranea a qualsiasi cliché identitario, ha sofferto una grave sottovalutazione».  



Nel capitolo sugli equivoci del “vero” swing e dell’autenticità della voce nera emerge in modo prepotente l’esigenza, che mi sembra quasi insopprimibile nonostante l’evidenza, per chi queste musiche le fa o le ascolta, di identificarsi in qualcosa di forte e definito, per quanto non veritiero. È una caratteristica comune alla politica, alla fede e ai consumi… quindi siamo in buona compagnia, o no?
«Quello di identificarsi con un gruppo dalle caratteristiche definite è un bisogno biologico insopprimibile della nostra specie. E definire i contorni del proprio gruppo è fondamentale per distinguerlo dagli altri, potenzialmente ostili. Il problema è un altro: chi si identifica con un gruppo spesso non è consapevole che a) la definizione identitaria del gruppo e dei suoi componenti è continuamente instabile b) i confini del gruppo, oggi più che mai, sono porosi e mutevoli. Semplificare è utile e facile, ma poi porta a derive nefaste. La critica al concetto di identità condotta da Francesco Remotti è in questo senso di grande importanza».  

I riferimenti a Stuart Hall, ma anche alle riflessioni di Remotti, mi sembrano in un certo senso spostare il problema della “realtà” nel piano della “rappresentazione” e qui, trattandosi comunque di pratiche artistiche e performative (che presuppongono qualcuno che le fa e qualcuno che le riceve) ho la sensazione che si possa avere un po’ più di indulgenza nei confronti di alcune dinamiche. È una mia impressione?
«Verrebbe voglia di rispondere di sì, ma in questa epoca storica devo rispondere di no. Ci sono due punti da chiarire. Quando ho letto Stuart Hall affermare che il campo del popolare nella cultura nera è profondamente mitico, ho fatto un salto, per la forza di sintesi di questo concetto. E io chiarirei: è mitico non solo per chi lo frequenta da fruitore, ma anche per chi produce.
Questo è un grosso problema: io credo che si possa smontare la mitologia della cultura popolare nera e al tempo stesso salvaguardare l’esperienza della rappresentazione, dell’immaginario e della creatività. Il jazz dagli anni Settanta in poi va anche in questa direzione. L’arte contemporanea non si esime mai da una riflessione sulla rappresentazione, ma non per questo si deve continuare a indulgere in stereotipi che non servono a nessuno. Qui la critica ha le sue responsabilità: nel libro ho avuto la tentazione di usare in modo più duro la potente discussione di Maurizio Bettini sulle “radici”, concetto che la critica musicale usa come un’arma ideologica per legittimare di tutto, anche politiche identitarie che ormai non servono più a nessuno (vedi la BAM - Black American Music). Per cui preferisco smontare il mitologico, perché a mio avviso così emerge una realtà musicale più ricca, più difficile da catalogare e, perché no, così meno manipolabile dal marketing.
E poi c’è un problema di attualità. Continuare a indulgere sulle dinamiche più viete della rappresentazione quando siamo davanti a cambiamenti epocali sul piano delle migrazioni, dei cambiamenti economici e culturali, delle ibridazioni dei linguaggi mi pare una battaglia di retroguardia. Preferisco guardare alla realtà nella sua complessità, anche se può dare fastidio a qualcuno.

Nel testo indichi la scelta di Esperanza Spalding di tenere una capigliatura afro come rifiuto consapevole dello stereotipo. Io ho sempre avuto invece l’impressione che si tratti di una sorta di “doppio gioco”, in cui questo elemento serve a fornire apparente autenticità a un’artista che – al di là delle qualità strumentali – è estremamente “costruita” sia produttivamente che nel look. Non sarà un caso che anche un altro grande “fenomeno” come Kamasi Washington giochi pesantemente sulla capigliatura afro?
«Premesso che concordo su Washington, devi dirti che ho incontrato per la prima volta Esmeralda Spalding anni fa nei camerini di Umbria Jazz Winter dopo un concerto in cui accompagnava Joe Lovano: era una giovane sconosciuta, piena di energia (e piuttosto sboccata) ed esibiva già quella maestosa capigliatura, che solo dopo è diventata anche uno strumento della sua immagine. Anche in absentia, visto che di recente ha cambiato arditamente look».

 

Una delle critiche che a volte sento rivolgere al tuo approccio è quella di un’eccessiva indulgenza nei confronti della de-afroamericanizzazione del jazz, quasi che la presa di coscienza di una molteplicità di impulsi alla costruzione di questa musica “rovini” il gioco, depotenzi questa musica. E va anche detto che uno dei “problemi” che il jazz si trova a affrontare in questi decenni è quello di una progressiva perdita di identità (quale essa vogliamo sia) e di importanza per nuove comunità di ascoltatori. Non sarà che alla fine tutti questi stereotipi sono stati necessari (un po’ come dici per il razzismo insito nel minstrel show) e smontarli taglia un po’ il ramo su cui siamo seduti?
«Nel libro cito bell hooks quando dice che un tocco di essenzialismo da parte dei nazionalisti neri è stato necessario per riequilibrare le forze culturali in campo. E gli stereotipi sono serviti a Herbie Hancock ("Watermelon Man") quanto a James Europe per affermare il primato della cultura africano americana. Io però credo che non siano più necessari: la perdita di identità del jazz è un problema che percepiscono quelli della mia generazione, che come me si sono avvicinati al jazz nella seconda metà degli anni Settanta (o poco più tardi, come credo nel tuo caso). In conservatorio frequento e discuto con decine e decine di studenti dai 19 anni in su e non ce n’è uno solo che lamenti la morte di qualche grande del passato o il fatto che il “nero” si stia stingendo. Per loro il jazz è già oltre il colore, è già poli-culturale, frutto di un’ibridazione globale. Che Steve Coleman sia nero e Bill Frisell bianco gli interessa fino a un certo punto. A loro interessa che quel linguaggio parli del mondo di oggi, di quello che vivono e di che direzione prendere in futuro. Quando una volta a lezione ho espresso un’accorata critica alla BAM, una studentessa che aveva sentito qualche concerto di Payton ha sgranato gli occhi e mi ha detto: “Professore, ma perde tempo dietro a queste cose? È solo marketing, basta”. Ci sono rimasto di stucco. Aveva ragione, e l’ho riconosciuto: un minuto dopo parlavamo d’altro.
Casomai le dinamiche identitarie classiche riemergono quando si affronta il jazz del passato. Ma è per questo che ho scritto il libro…».

Volevo condividere con te anche una breve riflessione sul concetto di "jazz italiano", che in questi decenni ha visto oscillazioni tra goffi desideri di passing di casa nostra (preconizzati dal Carosone di "Tu vuò fa' l'americano" e dal Nino Ferrer della "pelle nera"?) a suon di "brother", "yeah", di verdoniane gesta "eravamo, io, Benny Golson e lo spacciatore..." , di passioni mainstream tardive spacciate per novità BAM e – di contro – l'invenzione di una "italianità" nel jazz in cui sono la melodia e il calore mediterraneo a essere "nel sangue”. In realtà possiamo provare a estendere il discorso anche al concetto di "jazz scandinavo", di "norvegesità"…
«Questa è un’osservazione molto interessante, che potrebbe arricchire il libro. Alla fine degli anni Sessanta il jazz in Europa si è dato delle identità più o meno definite per riuscire a farsi largo nel mondo della musica e per individuare una voce originale. Poi si è trasformato anche in una formula commerciale, con tratti ancor più distintivi: il jazz nordico riflessivo o free, quello mediterraneo più cantabile, eccetera. Questa tendenza mi sembra legata ad una tendenza simile nel cosiddetto etno-jazz, in cui il musicista marocchino suona jazz ma deve comunque mantenere una sua identità “etnica” riconoscibile, che lo renda esoticamente affascinante e vendibile come prodotto di una “tradizione” che, bontà sua, sa guardare avanti. Un marocchino che imita Coltrane non interessa a nessuno.
Questo è un po’ il problema che riguarda certi musicisti italiani come Franco D’Andrea: non sono “etnicamente” etichettabili. D’Andrea non appare abbastanza “italiano” e non si appiattisce su certi modelli americani. Il fatto che produca solo della musica eccellente non sembra abbastanza: la qualità non è una condizione necessaria delle politiche identitarie».

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