Vita di Giusto Pio, musicista

Una riflessione sulla vecchiaia con il violinista e compositore, per i suoi novant'anni

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Giusto Pio è noto ai più come collaboratore storico di Franco Battiato in molti dei suoi album più importanti, ma vanta una carriera come violinista (anche in Rai) e compositore che copre ormai oltre settant'anni di storia. Il Conservatorio Steffani di Castelfranco Veneto - la sua città - gli dedica un premio alla carriera, il 13 gennaio prossimo, al Teatro Accademico, per i suoi novant'anni. Una fine di 2015 complicata, per il musicista, che si è fratturato l'anca in un incidente domestico e ha subito un intervento. Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questa intervista esclusiva che gli ha fatto lo scrittore Vittorino Mason nel novembre del 2012.

L'amicizia con il maestro Pio risale a molti anni addietro, poco dopo il suo rientro a Castelfranco da Milano. Andai a conoscerlo con la scusa di regalargli alcune mie poesie e con la speranza segreta che qualcuna venisse musicata da lui. Le poesie rimasero mute, ma l'amicizia si è via via rinsaldata e alcuni anni più tardi componemmo una canzone dedicata ai giovani: "Il futuro sei tu", con un testo di grande attualità.

Sono lontani i tempi in cui il giovane Giusto Pio, allora quindicenne, andava a suonare il violino e poi l'armonium nella chiesa di S. Andrea a Castelfranco Veneto per quattro uova e un po' di farina. Eravamo nel 1941, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, e mangiare non era cosa scontata. Da allora ne sono passati di anni. Il giovane è diventato un uomo affermato: primo violino all'orchestra della Rai di Milano, compositore, autore di brani di successo con l'allievo e amico Franco Battiato, esploratore di mondi sonori che rimandano a dimensioni altre. Alla soglia degli 87 anni - li compirà l'11 gennaio prossimo - di tanto in tanto lo vedi andare a passettini sotto i portici della sua città, accompagnato dal bastone, chino sotto il peso del tempo e un orizzonte forse troppo lontano per poterci mettere dei sogni.

È la vecchiaia, quell'età alla quale tutti aspirano e che allo stesso tempo cercano di esorcizzare. Capolinea o rito di passaggio, preambolo al mondo delle tenebre, a quell'interrogativo che, prima di tutto, mette paura. Quando arrivi lì le forze sono minime, spesso acciacchi e malattie ti fanno tribolare e non sei più autosufficiente. Devi dosare tutto, aspirazioni e sogni, vivi giorno per giorno, sai che, pur rimandando il momento, ogni istante è buono per lasciare la terra e spogliarti di quel corpo che ti ha seguito ed è stato prigione e custode della tua anima.
La maggior parte degli amici e conoscenti se ne sono già andati, tu ti guardi attorno e ti senti solo, in di più, fuori posto. Allora cosa ti fa rimanere, cosa ti sostiene e mantiene ancora? La fede, una grande passione? Quanto coraggio ci vuole per sopportare la vita?

È di novembre scorso la notizia che due coniugi della provincia di Verona, una coppia di pensionati innamorati l'uno dell'altra, hanno deciso di farla finita perché incapaci di affrontare la dura realtà della vecchiaia. Sembra così ipocrita e banale la retorica che la definisce il tempo della maturità e della pace interiore. La stagione della vecchiaia a volte può essere crudele, drammatica e diventare insopportabile. Ci vuole tanto, ma tanto coraggio per viverla e gli interrogativi che pone, sono molto intriganti. Mi sono giunti come una visitazione nel dormiveglia di una notte; con loro c'era la figura di Giusto Pio e ho pensato andandolo a trovare per esplorarli.

Autunno piovoso, ci siamo dati appuntamento nel primo pomeriggio. Il maestro e Maria, la moglie che lui affettuosamente chiama Mary, rientrano dal carrozziere con la macchina rifatta, pure lei sentiva il peso degli anni. Con piacere, come un maggiordomo apro il cancello di casa. Mary calza un paio di scarpe una diversa dall'altra e quando se ne accorge lo fa notare al Pio che la butta subito a ridere. «Bruto vecio» esclama lei, «bruta vecia» ribatte lui. Muso a muso, scherzando e ironizzando su se stessi, mettono in piedi una tipica scenetta da baruffe chiozzotte. Alla loro età possono succedere di queste cose, dopotutto la settimana scorsa hanno festeggiato i sessant'anni di matrimonio, un record, un esempio di fedeltà e amore.

In entrata, sopra la cassapanca in noce "Apriti sesamo", l'ultimo cd di Franco Battiato. Mary si mette a cucire seduta nel divano, noi scendiamo in quello che il Pio considera il suo rifugio, dove c'è tutta la strumentazione elettronica, la stanza della musica. Si siede sulla sua sedia di composizione, davanti a uno spartito, in pace con se stesso, come se da tempo si fosse preparato al passaggio..., tutto è normale, assolutamente armonioso, come una foglia che lascia il ramo d'autunno.



Il tono della sua voce, basso e rauco, esce dalla gola come dopo essere passato sotto un nastro di carta vetrata; tutta colpa di una malformazione alle corde vocali, e per rischiarare la voce ogni tanto dà un colpetto di tosse. Nonostante ciò, sa subito dove mettere l'accento, una smorfia, un sorrisetto, uno dei suoi, con quell'espressione sempre disponibile.

Come trascorri i tuoi giorni?
«Da anni organizzo le mie giornate a seconda dello stato della mia salute e quello della mia compagna che, a questa età, rappresenta per me la cosa più importante; senza di lei non riuscirei a vivere. Per cui molto tempo ci viene preso dalle terapie, dall'assumere ad orari precisi questo o quel farmaco - e mi fa vedere quante scatole ha dentro un cassettone e quante sopra il piano di una credenza -, ma non rinunciamo a uscire di casa per prendere un caffè al bar. Poi i miei interessi culturali vanno a riempire solo i pochi buchi di tempo».

Componi ancora?
«Poco, le ultime cose che ho fatto, "Clandestino" e "Centro di Accoglienza", risalgono al 2011 e sono due brani dedicati ai profughi clandestini che sbarcano a Lampedusa».

Cosa ha significato per te la musica?
«Tutto, il senso della mia vita. Sarei stato disposto a suonare anche per elemosina, pur di perseguire questa grande passione. Pensa che fin da bambino, all'età di tre, quattro anni, ho avuto la fortuna di ascoltare musica. A quei tempi per le vie del paese passava un furgone di una fabbrica di lucido da scarpe "Tana", che rimandava della musica e ogni volta giungeva davanti a casa mia io uscivo entusiasta ad ascoltare. Inoltre mio padre aveva un apparecchio radio e così da noi la musica non mancava mai. Pensa che da bambino sono arrivato a farmi uno strumento musicale con delle lamette da barba spezzate in due e conficcate di taglio in una tavoletta di legno che con un pennino da scrittura pizzicavo producendo dei suoni...».



Il tuo disco più riuscito? «Non ho preferenze, uno vale l'altro. Perché quando ho composto qualcosa l'ho fatto perché lo sentivo di farlo... Forse il Trittico, un lavoro composto da tre brani, "Isaia 6,9-10/Beatitudini/ Visione"».

E uno con Battiato?
«Lo stesso, uno vale l'altro. Ma se parliamo di vendite, sicuramente La voce del padrone, un milione di dischi in soli tre mesi. Devi pensare che il nostro primo disco non aveva venduto niente, ottomila copie. Il contratto con la casa EMI era di fare tre dischi, ma a patto che ognuno vendesse almeno diecimila copie. Sembrava tutto finito invece un dirigente della casa discografica propose di tentare di fare anche il secondo che vendette quarantamila copie. Tutti contenti. Presentammo poi il provino del terzo disco e quelli della casa editrice entusiasti dissero che sarebbe stato un successo. Tra noi si fece anche una gara sulle previsioni di vendita. Uno azzardò cinquantamila copie, un altro per sessantamila, Battiato che è sempre fiducioso novantamila ed io per scherzo centoventimila, poi andò come andò...».

Vi sentite ancora?
«Sempre, anche questa settimana. Di solito è lui che chiama perché, visto tutti i suoi impegni, non lo voglio disturbare. Le nostre sono telefonate di minimo mezz'ora e l'argomento non è quasi mai la musica, ma su argomentazioni e teorie legate alla nostra frequentazione della scuola di pensiero del filosofo, scrittore e mistico Gurdjieff. Sai, quando vivevamo a Milano, per sette anni ho frequentato le lezioni di un allievo di Gurdjieff... a noi l'esoterismo ha sempre intrigato».

Nella tua lunga collaborazione con Franco Battiato, qual è la cosa che di lui ti ha più colpito?
«La persona. Per la sua intelligenza, la sua generosità... la sua memoria musicale, mostruosa! Pensa che si ricorda brani di trent'anni fa e te li suona con una grande facilità. È una discoteca Franco».

E lui di te?
«La mia sincerità, il coraggio di dire ciò che penso. Questo lui lo apprezzava molto perché quando chiedeva un parere agli altri, questi per soggezione lo assecondavano sempre, io invece spesso lo contraddicevo».

Hai suonato per trentuno anni il violino con l'orchestra della Rai, poi con Franco, hai diretto orchestre e composto musica con la strumentazione elettronica, cosa ti ha dato più soddisfazione?
«Non si può fare una graduatoria o esprimere dei giudizi, sono cose diverse. Comunque sia, tutte mi hanno dato il piacere di fare musica, la cosa più importante. Violino, pianoforte,orchestra, partiture, sintetizzatori, sempre la stessa soddisfazione... - il maestro si alza e va di là a prendere una foto che lo ritrae nella Sala Nervi del Vaticano con l'orchestra, Franco Battiato e Giovanni Paolo II dopo il concerto dedicato al Santo Padre -. Guarda, non è che qui - riferendosi al concerto - ho avuto più soddisfazione di quando andavo a suonare con un orchestrina in una sorta di balera a Montebelluna. Ricordo che fuori dalla stazione c'era un vecchio magazzino con le porte di ferro punteggiate di buchi fatti dalle schegge delle bombe. Non c'era riscaldamento, ed era la gente che ballando riscaldava il posto».




Il momento più bello della tua vita?
«No, nessuno in particolare. Li vedo tutti belli. Sono qui che cerco qualcuno, vedo molte cose, ma... ho avuto una vita interessante e l'ho presa sempre con entusiasmo. Nel periodo della guerra, quando studiavo violino e ho dovuto scappare perché se i tedeschi mi trovavano mi impiccavano, per nascondermi mi rifugiai ai I Prai - un'ampia zona di campagna non lontana da Castelfranco Veneto - e continuai lì ad esercitarmi. In mezzo ai campi, nascosto dalle fronde degli alberi o dalle canne di granoturco, suonavo il violino ed ero lo stesso felice».

Veniamo al motivo dell'incontro. Come vivi la stagione della vecchiaia?
«Come si fa a dire? La vivi a seconda delle condizioni del momento, dai condizionamenti esterni e dallo stato di salute. Senti che sei verso una fase discendente, devi limitarti, accontentarti... già alle sette della sera tiro giù le tapparelle, ci chiudiamo in casa, ci ritiriamo, in tutti i sensi. Senti che quello che un tempo era indispensabile ora non lo è più. Ma non è una rinuncia, è una cosa naturale. Non ho alcuna nostalgia del passato e comunque sia vivo con serenità questo tempo e la cosa più importante è che la mia compagna stia bene e per questo mi do da fare per alleviarle le sofferenze; se sta bene lei sto bene anch'io: siamo uno».

Ti fa paura la morte?
«No. Mi farebbe paura solo una morte violenta e prego di morire senza dolori. So che dobbiamo passare per la morte e cerco di mettermi in condizione per affrontarla».

Ti stai preparando?
«Sempre. Tutti i giorni mi predispongo e vivo come fosse l'ultimo. A volte sono lì, disteso nel letto che leggo il giornale, poi mi stanco e vado via con i miei pensieri e uno dei più importanti è quello della fine, non la chiamo morte, ma la fine di questa vita. L'unico dispiacere che ho è di provocare dolore alla mia compagna lasciandola sola. Se invece morisse lei prima di me, la mia vita non avrebbe più scopo e in maniera molto dolce mi lascerei morire».

Credi in qualcos'altro, alla reincarnazione come Battiato?
«Non credo alla reincarnazione, ma questa, come la resurrezione e la rinascita, è professata da molte fedi e religioni, e con un ragionamento io non riesco ad arrivare a capire una cosa così grande. Di fronte a Dio che è l'assoluto e comprende tutto, noi siamo niente, un granello di sabbia che si perde nel poco della Terra. Gli uomini analizzano il pensiero del cervello umano, che è una cosa grande rispetto alla natura, ma di fronte a Dio niente. Per cui rinuncio a pormi domande. Nessuno può spiegare cosa sia la vita, ma da qualcosa è nata è ed è stato qualcosa di straordinariamente grande a generarla».

In alcuni tuoi lavori, penso a Missa populi o al Trittico, è chiaro il riferimento a temi religiosi. È stata una ricerca attraverso la musica?
«Sì, ma tutto quanto in rapporto a me, che sono fatto di carne e soprattutto ossa. In me agisce la parte interiore e spirituale, ma ora sono un uomo non uno spirito che suona. È chiaro però che c'è il bisogno e la curiosità di andare ad indagare, a spiare dal buco della serratura cosa c'è oltre il visibile e il tangibile... Attraverso la musica ho cercato di fare anche questo, andare in profondità il più possibile per esplorare quei mondi sconosciuti, raccontati solo a parole. In una mia composizione, dove la vita finisce, c'è un fascio di suoni che è come una luce, e va lungo lungo, dura più di un minuto, due tre note assieme che si perdono nell'infinito. In fondo non ci ho mai ragionato molto su questi temi. Cerco di vivere e sono in attesa, sapendo che c'è un percorso da fare e adesso, che ho 87 anni, so che non andrà più in salita, ma in discesa. Sento che succederà qualcosa, ma non mi struggo a pensare che cosa...».

Ti lasci alle spalle un secolo segnato dalle guerre, dal boom economico, dal progresso e dalla crisi economica, che nasconde anche quella esistenziale ed ambientale. Pensi che questa umanità possa ancora spazio per sognare?
«Tutto accade, accade e noi non abbiamo coscienza di essere. La maggior parte delle nostre azioni sono meccaniche - mena il capo -. Non credo che non si sogni più. Tutti sperano sempre qualcosa. Non credo neppure che l'uomo sia al capolinea. Tu pensa che ci sono degli studiosi che dicono che la vita di ogni individuo, prima di unirsi all'assoluto, sia di quarantamila anni! Se questo fosse vero come si può pensare al futuro... e io non voglio scervellarmi nel cercare di capire queste cose, accetto la mia condizione, vivo con le mie cognizione e con i miei affetti. È inutile che io voglia correre a cento all'ora se non ho una macchina».

Un rimpianto?
«No, perché ho sempre accettato tutto quello che mi è arrivato, nel bene e nel male. All'età di cinque anni ho visto morire mia sorella che aveva undici mesi, me la ricordo ancora adesso. Di là, sopra il comò, ho ancora le sue scarpine - va a prenderle per farmele vedere - che conservo con affetto. Tra tutti i fratelli, mia madre volle affidarle a me. Ci sono dei ricordi alla quale noi ci attacchiamo, ma sono pur sempre dei ricordi. Io vedo queste scarpette e rivedo la mia sorellina, ma poi tutto passa via, come quando si è in un treno che sfreccia veloce, si vede e non si vede, e non è più il paesaggio visto dal treno, ma qualcosa ben più grande».

Cosa diresti ai giovani di oggi? Te la senti di dare un consiglio?
«No, per carità. Troppa responsabilità, ognuno cerchi da se e prenda ciò che vuole. Se io ho fatto qualcosa e qualcun'altro se ne interessa sì, ma è lui che si è fatto influenzare, non sono io. È accaduto anche me quando mi sono fatto influenzare da Ghandi: di lui ho preso una cotta! Allora ero imbevuto di Ghandi. Guarda, quello che ho fatto nella mia vita, misurato col metro della contemporaneità, rispetto a molti altri può sembrare di più alto valore, ma non è stato per imitare qualcuno, solo perché mi veniva naturale così. Io non ho mai fatto qualcosa per trasmetterlo agli altri, ma se trovano qualcosa di interessante se la possono prendere... come ho fatto anch'io».

Me ne vado che è buio e sotto i lampioni piove ancora. Le foglie incrociano i raggi della bicicletta e i pensieri quella coppia lasciata alle spalle. Pio e Mary seduti sulla poltrona, uno a fianco all'altra, lei a guardare la tivù, lui, assopito in un piacevole dormiveglia che le stringe la mano "...perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te, io sì che avrò cura di te...", e non posso che pensare al toccante, tenero e commovente film Amour del regista Michael Haneke.

Castelfranco Veneto, novembre 2012

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