Una grande nave sul grande schermo

Brian Eno e la storia di una curiosa coincidenza cinematografica

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In questi giorni Brian Eno è a Bari per il Medimex, dove ha presentato Light Paintings: installazione allestita da mercoledì 28 ottobre presso il teatro Margherita. Ma ci occupiamo di lui per via di una curiosa combinazione: le sequenze conclusive di due film proposti in anteprima l'inverno scorso al Sundance e usciti in sala oltreoceano durante l'estate scorrono infatti sulle medesime note di un suo brano, "The Big Ship". Incluso originariamente in Another Green World, terzo album da solista edito nel settembre 1975, è un episodio strumentale che affiora in assolvenza dal silenzio per poi inabissarvisi di nuovo tre minuti e un secondo più tardi. Ha struttura elementare (una progressione di quattro accordi: Do, Fa, La minore e Sol) e sviluppo circolare, poiché finisce dov'era cominciato. Si trattava del bozzetto di una canzone mai portata a termine, collocato in sequenza al quinto posto in quel disco concepito ricorrendo alla divinazione creativa delle cosiddette "Strategie Oblique".

All'ascolto esercita tuttora un fascino enigmatico, ma ciò non rende meno sorprendente la coincidenza che l'ha riportato all'attualità. A dire il vero, nel caso di Me and Earl and the Dying Girl di Alfonso Gomez-Rejon (che da noi uscirà a inizio dicembre, ribattezzato Quel fantastico peggior anno della mia vita), trionfatore al festival di Park City, la scelta non è stata affatto casuale, visto che Eno stesso ne ha supervisionato la colonna sonora, nella quale figurano altre sue composizioni provenienti sia da Another Green World ("Golden Hours", "Zawinul/Lava", "I'll Come Running") sia dai precedenti Here Come the Warm Jets e Taking Tiger Mountain.



C'è comunque una spiegazione anche per la presenza di "The Big Ship" in The End of the Tour di James Ponsoldt, ispirato al libro di David Lipsky Come diventare se stessi, resoconto dei cinque giorni trascorsi dall'autore con David Foster Wallace all'epilogo del tour letterario intrapreso nel 1996 per promuovere Infinite Jest (testo pubblicato nel 2010, due anni dopo il suicidio dello scrittore statunitense): la si rintraccia fra le pagine del "romanzo incompiuto" Il re pallido. A un certo punto, riferendosi a quel pezzo, Foster Wallace scrive: «Questa canzone mi scalda e rassicura insieme, come fossi un bimbo coccolato appena uscito dal bagnetto e avvolto in asciugamani lavati così tante volte da diventare incredibilmente soffici, e al tempo stesso m'intristisce; c'è un vuoto al centro simile alla desolazione di una chiesa o un'aula deserta con un mucchio di finestre attraverso le quali puoi vedere solo la pioggia in strada, come se esattamente al centro di questa sensazione di abbraccio rassicurante vi fosse il germe del vuoto». Descrizione profonda e appropriata di un brano altrimenti elusivo, che sembra aver trovato infine - all'età di 40 anni - senso e collocazione nella simbiosi con le immagini che chiudono due storie per ragioni diverse tenere e struggenti.

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