Bartoletti, testimone del Novecento

Un ricordo del direttore d'orchestra

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classica
Alla vigilia del suo ottantasettesimo compleanno, il 9 giugno, se ne è andato Bruno Bartoletti, nato a Sesto Fiorentino il 10 giugno del 1926, fra gli ultimi testimoni della Firenze di Luigi Dallapiccola e Francesco Siciliani, delle grandi e storiche edizioni del Maggio Musicale, come il mitico "Maggio espressionista" del 1964, di una tradizione di musica fiorentina autoctona e insieme aperta e cosmopolita, all'insegna di un'artigianale concretezza ma anche di un notevole respiro internazionale, che l'aveva portato, tra l'altro, ad una lunga e felice esperienza americana, alla guida dell'Opera di Chicago. Una vicenda che aveva visto questo direttore diventare a poco a poco, dall'originaria fisionomia di bacchetta "di repertorio" (ma mai routinier, sempre attento alla preparazione accurata dell'orchestra come alla comprensione delle ragioni del palcoscenico: così lo ricordano i vecchi orchestrali del Maggio), uno dei più affidabili e preparati direttori del Novecento storico. Ricordiamo almeno, fra le sue cose fiorentine più memorabili dagli anni Cinquanta fin quasi ai nostri giorni, l'aver proposto al Comunale, al Maggio o in stagione, cose come L'Angelo di Fuoco e L'amore delle tre melarance di Prokof'ev, Il Naso di Sostakovic, Morte a Venezia di Britten, la prima italiana di Opera di Luciano Berio, un'edizione del dittico di Dallapiccola Volo di Notte e Il Prigioniero, a cui fu conferito il premio Abbiati come miglior spettacolo 2004 (sempre l'Abbiati l'aveva laureato miglior direttore nel 2003, in una fase della sua carriera più che mai intensamente votata alla riproposta dei capolavori di Weill, Britten, Pizzetti e altri maestri di un Novecento tutto da riesplorare). Di rilievo la prosecuzione di un filone di spettacoli fiorentini nati all'insegna della collaborazione con i grandi registi del cinema al loro debutto nella regìa d'opera, ad esempio nella collaborazione con Liliana Cavani da cui nacquero un Wozzeck e un Cardillac, o nello straordinario Trittico che a metà degli anni Ottanta aveva visto un'edizione con Bartoletti sul podio e tre firme registiche del calibro di Ermanno Olmi, Franco Piavoli e Mario Monicelli. Ben oltre l'orizzonte fiorentino, questa naturale evoluzione della sua carriera verso il moderno lo mise nella condizione di firmare anche alcune importanti prime assolute, come Napoli milionaria di Nino Rota a Spoleto e Paradise lost di Penderecki a Chicago. "Una visione molto umanizzata del Novecento, senza le sottolineature espressionistiche di altri grandi interpreti, naturalmente ancorato al mondo musicale e teatrale che l'aveva preceduto e preparato, a Puccini soprattutto", ricorda Marcello De Angelis, cronista e commentatore di lunga data, citando in modo particolare il primo Wozzeck fiorentino di Bartoletti, con la regia di Virginio Puecher (1964). Ma soprattutto i suoi Puccini, tanti, sempre ricchi e vibranti, quasi in consonanza naturale con un compositore che sapeva contemperare con naturalezza ricerca linguistica e comunicazione spontanea con il grande pubblico dell'opera, proprio nella chiave suggerita da De Angelis. Negli ultimi anni, Bruno Bartoletti non aveva nascosto di essere vivamente preoccupato per le sorti del teatro in cui si era fatto le ossa e in cui aveva debuttato come direttore negli anni Cinquanta, anche con prese di posizione pubbliche in cui rimarcava il crescente allontanamento fra il teatro e la città, la perdita di centralità nel panorama italiano, l'assenza di una gestione sana e normale di quell'istituzione di cui era stato anche direttore artistico dal 1985 al 1991, dopo essere stato, già prima dell'era Muti inizata nel 1968, direttore stabile (e a lungo, in ogni caso, una delle figure più presenti sul massimo podio fiorentino su cui fece la sua ultima apparizione nel 2011 con una Manon Lescaut). Ma il raffreddamento dei rapporti con il maggior teatro cittadino non gli aveva impedito di trovare altri approdi nelle altre istituzioni musicali toscane, ad esempio negli anni Novanta come direttore ospite dell'Orchestra della Toscana, più recentemente con la Camerata Strumentale "Città di Prato". Esperienze in cui, ancora una volta, aveva proposto programmi sempre originali, spesso mai sentiti a Firenze, nella chiave di quella visione della musica multiforme, cordiale e senza barriere, di cui è stato l'interprete.

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