100 ANNI DI CAGE: Aprirsi all'ascolto della vita

Sradicamento dalle regole passato e recupero dell'innocenza perduta del gesto musicale

Articolo
classica
A cento anni dalla nascita di John Cage, l'eventuale sussistenza di un suo lascito estetico e spirituale sembra essere questione tutt'altro che ovvia, ed anzi meritevole di precisarsi. Se c'è infatti un punto sul quale la poetica del compositore californiano insiste costantemente, questo è lo sradicamento dalle regole passato e dall'alveo delle tradizioni in qualsivoglia forme espresse, a favore del recupero dell'innocenza perduta del gesto musicale ed avendo di mira l'utopia del puro suono, scevro di ogni connotato semantico ed espressivo intenzionalmente precostituito. Perciò a procedere nel nostro difficile compito può aiutare, paradossalmente, domandarsi di chi Cage si sentì a sua volta erede e continuatore, interrogativo che ci riconduce a due figure: Erik Satie e Anton Webern.

Satie, lo sappiamo, escludeva per programma l'esistenza di una maniera, una tendenza che seguisse le sue orme: «Una scuola Satie non può esistere - scrisse - ho sempre cercato di scoraggiare i seguaci». Tanto più nel caso di Cage, che operò per condurre la musica, mediante il ricorso al silenzio, l'aleatorietà e l'indeterminazione, a quel grado zero di cui Roland Barthes scrisse negli stessi anni a proposito di certi esiti estremi in campo letterario, si direbbe che ogni tentativo di ricondursi alle sue idee sia destinato a naufragare nel più evidente dei tradimenti. Uguale esito si avrebbe considerando il seguito dato da Cage e da Morton Feldman al serialismo di Webern. Se Feldman approfondì il lato lirico della stagione espressionista portandolo alle soglie di un'estatica, contemplativa e abbandonata afasia, Cage da parte sua estese l'idea di totale cromatico preconizzata da Schoenberg all'intera messe di materiali offerta dal rumore, dal mondo, dalla vita quotidiana tutta: approdando così a un gesto di equanime, anzi ecumenica apertura all'ascolto del mondo che, molto spesso, ha portato a un opportuno parallelo con il pensiero di Heidegger.

Proprio a partire da quest'ultima considerazione si muove la nostra ipotesi. Assai presto nella sua riflessione, Heidegger giunge alla basilare tesi per cui la contemplazione dell'Eregnis - cioè dell'evento allo stato puro, corrispondente al suono puro, scevro di significati sovraimposti, che fu la meta di Cage - si ottiene accettando che evento possa essere non qualcosa di speciale bensì qualsiasi avvenimento, da esperirsi prima che intervengano delle spiegazioni in merito al suo accadere. Questa stessa tesi, trasposta in termini musicali, pare essere stata l'intuizione primaria di Cage: l'essersi reso conto che i suoni, come ogni cosa, fluiscono nel tempo e si compenetrano tra loro e alla nostra percezione in un ambito interiore che è di gran lunga precedente alla nostra elaborazione intellettuale. Se quindi può esistere un modo di fare musica, o una figura di compositore, d'interprete o anche d'ascoltatore che si possano ricondurre all'esperienza del grande sperimentatore statunitense, nessuna di queste avrà a che fare con un certo stile compositivo anziché con un altro: si tratterà piuttosto di elaborare un modo diverso di intendere il rapporto tra noi e il tempo, di accedere ad un mutato rapporto tra l'interiorità emotiva e l'oggetto estetico nonché tra il soggetto che fruisce la musica, e il darsi della musica nella storia.
Molto opportunamente, e in conseguenza di questo ribaltamento fenomenologico d'ordine generale, Walter Marchetti, forse il compositore italiano più vicino alla poetica di Cage, sostiene che dopo di lui non esiste più nella musica un mainstream, una corrente principale di matrice europea che detti leggi agli altri continenti, troppo a lungo marginalizzati.

La fusione delle prospettive temporali alle quale Cage dà il via comporta anche una diversa prospettiva spaziale e nell'ordine dei rapporti tra le aree culturali, tra i generi musicali nonché tra le diverse arti - ricordiamo in merito l'importanza della sua cinquantennale collaborazione con uno straordinario coreografo quale fu Merce Cunningham. In ultima analisi, elaborare il variegato messaggio di Cage - per certi versi inafferrabile proprio in virtù della sua polifonica complessità, a stento mascherata da uno artatissimo pragmatismo e da una ingannevole naïvété - può significare, come ci ha indicato Daniel Charles, il primo dei sui esegeti filosofici, ancora una volta votarsi al tentativo più difficile, sfuggente giusto in virtù della sua valenza etica: aprirsi all'ascolto della vita, all'inenarrabile intreccio delle sue contraddizioni per farne musica del mondo, strumento di crescita e di comprensione di qualcosa che può parere un mistero trascendente e talora, al tempo stesso, la semplice meraviglia di esistere.

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