La scomparsa di Licitra

La spontaneità canora del tenore siciliano

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classica
Salvatore Licitra: entro nel suo Official Website per ripassarne la biografia; ad ogni accesso, parte l'audio di un'aria, scelta a caso dal sistema informatico; per tragica ironia risuonano le note di «Giunto sul passo estremo della più estrema età», dal Mefistofele. E davvero Mefistofele ci ha messo la coda, perché Salvatore Licitra è giunto sul passo estremo a soli 43 anni, il 5 settembre 2011. Difficile dire quanto fosse popolarmente famoso: dopo il fenomeno Pavarotti, nessuno dei suoi conclamati eredi artistici (e Licitra era uno di loro) potrà forse più vantare quella popolarità ad ampio raggio e a tutti i livelli sociali che una volta era prerogativa dei cantanti lirici (Caruso, Callas) ed oggi dei cantanti pop; la particolare dinamica dell'incidente motociclistico, la sua localizzazione italiana e la lunga agonia hanno tuttavia contribuito a una certa amplificazione mediatica del personaggio, negata invece pochi mesi prima all'improvvisa morte in Turchia di Vincenzo La Scola, del pari tenore e siciliano (anche se Licitra era nato anagraficamente a Berna), di dieci anni più anziano. Pochi lo ricorderanno, al di fuori degli addetti ai lavori, ma il volto gioviale di Licitra aveva già campeggiato su tutte le prime pagine dei quotidiani nazionali (e non solo) nel dicembre 2000, quando Riccardo Muti lo aveva scelto come Manrico per il Trovatore che alla Scala inaugurava l'anno verdiano: quel Trovatore eseguito senza gli acuti di tradizione, sul quale furono chiamati a discettare ministri della Repubblica e dirigenti d'azienda, stilisti e magistrati, showmen e massaie al mercato, senza cognizione di causa. L'estate seguente Licitra ebbe comunque modo di rifarsi, dimostrando al mondo che lui il "do facile" ce l'aveva, in altrettante recite del Trovatore in Arena con puntuale bis della "Pira", quasi a voler recuperare il budget di acuti d'ordinanza negatigli alla Scala. Nella sua spontaneità canora, Licitra era infatti un tenore d'altri tempi, nel senso buono del termine: il suo repertorio ricalcava quello nazional-popolare di un Gigli, di un Di Stefano: Tosca e Ballo in maschera, Aida e Andrea Chénier, Cavalleria e Pagliacci, per molti versi i titoli oggi più difficili da sostenere in palcoscenico sul piano vocale. Senza dunque bisogno di battere sentieri alternativi, le porte di tutti i teatri gli sono state presto spalancate, anche se non era ancora giunto a quella sorta di identificazione storica con un personaggio particolare, come furono Werther per Kraus, Otello per Domingo o Rodolfo per Pavarotti. Il futuro sarebbe stato comunque con lui, aperto a ulteriori e maggiori imprese, grazie a un colore timbrico di prima qualità e a una tecnica superiore all'attuale media tenorile. Non sarà certo facile rimpiazzarlo nei tanti progetti teatrali e discografici che aveva in carnet per i prossimi anni.

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